La tortura degli altri
settembre 5, 2021 Lascia un commento
Molti anni fa, quasi cinque per l’esattezza, come ricorderanno i miei numerosissimi lettori, avevo scritto un post titolato La sincerità di Montezuma”, in cui riflettevo su alcuni aspetti dell’incontro tra l’ultimo imperatore Azteco e i conquistadores spagnoli.
Se a volte mi sembra di scrivere al vento (e non perché abbia pochi lettori: come scritto sopra sono numerosissimi), è perché le cose che scrivo mi sembra di non rinvenirle quasi da nessun altra parte: originalità o delirio? Ai numerosissimi lettori l’ardua sentenza.
Comunque sia, mi succede nel febbraio dello scorso anno di trovare un articolo del magazine on-line di lingua inglese Aeon che, pur partendo da una posizione geografica diversa da quella del Messico precolombiano, afferma più o meno le stesse cose che tentavo di dire io in “La sincerità di Montezuma”.
L’articolo si intitola “American torture”. Non ne farò il riassunto, invito a leggerlo. Qui dirò solo che l’autore, William Fitzhugh Brundage, parte dal confronto-scontro culturale, nel XVII secolo, tra i guerrieri Uroni e gli ultimi arrivati sul continente americano, gli Europei.
La prima cosa da notare è che la storia non viene presentata come un racconto morale. Nella coscienza comune la storia nordamericana è passata da una narrazione che vedeva gli “indiani selvaggi” scontrarsi con il “civile europeo” a una, contemporanea, in cui gli indiani sono vittime innocenti del perfido uomo bianco. Se i ruoli si sono praticamente invertiti, non così la prospettiva, quella semplificatoria di uno scontro tra dei Buoni e dei Cattivi. L’articolo di cui sopra non fa sconti a nessuno, fatti ovviamente salvi i rapporti di forza, che col tempo come sappiamo si sono rivelati a sfavore dei nativi americani e a favore dell’invasore europeo.
La seconda cosa è quella più importante, ovvero la percezione della violenza tra le due culture, nel nostro caso di quella violenza che sembra far più orrore alla nostra contemporaneità, ovvero la tortura. La conclusione dell’autore è semplice, ed è anche la mia: la violenza in generale e la tortura in particolare sono difficili da riconoscere come tali quando avvengono nel proprio gruppo di appartenenza, mentre quando avvengono in un gruppo esterno, appaiono sin troppo facilmente come mostruose. O, più precisamente e più sottilmente: ciò che viene chiamata violenza sono spesso pratiche culturali estranee e remote dalle proprie e quindi incomprensibili.
Ciò può apparire sconcertante, perché violenza e tortura sembrano quanto di più per-culturale possa esserci, ovvero di universale. Parliamo dell’uso della forza contro i corpi, dell’inflizione del dolore spesso fine a se stesso, delle carni che si lacerano, delle tecniche per condurre a una morte lenta, e così via.
Eppure, come ci insegnano le riflessioni che a suo tempo avevo condotto su Montezuma, e come mostra ancor più chiaramente l’articolo citato, anche la violenza e anche la tortura possono essere e sono prese nel gioco culturale. E per essere percepite come tali, più che i corpi materiali fatti di carne e sangue, devono distruggere e infrangere l’ordine simbolico su cui si fonda una specifica cultura: la violenza e la tortura, se ritualizzate ed eseguite secondo determinate regole condivise da un determinato gruppo, è come se perdessoro la loro carica distruttiva, come se cessassero di essere tali, o almeno di essere percepite come tali. Se l’ordine culturale viene rispettato anche quelle che dall’esterno appariranno come le peggiori atrocità appariranno come giustificate, giuste e soprattutto normali, diverrano pratiche lecite per fare la giustizia (i supplizî, i linciaggi), per estrarre la verità da un soggetto (la confessione giudiziaria), per trasformarne la sua natura (i riti d’iniziazione, le terapie di “conversione”), e così via.
Termini correnti come “violenza insensata” rivelano involontariamente il gioco in questione: se esiste, a un estremo dello spettro, una violenza insensata, una violenza illeggibile, quella solitamente reputata come la maggiormente insopportabile, vuol dire che ne esiste, all’altro estremo dello spettro, una sensata, dotata di senso, di intelliggibilità. Il contenuto con cui di volta in volta questi due poli vengono riempiti varia a seconda delle epoche e dei luoghi. Così il rogo della strega appare violenza sensata, sopportabile e giusta e il sacerdote azteco che estrae il cuore dalla vittima sacrificale appare violenza insensata, insopportabile, ingiusta. Da una parte la civiltà, dall’altra la barbarie. E ovviamente anche viceversa.
Una prospettiva del genere, volutamente e fortemente relativistica (nel senso culturale del termine), pone ovviamente dei problemi non da poco. Come sempre, quando si parla di relativismo culturale, il problema è la dissoluzione dell’etica.
Come è possibile, una volta accettati i risultati di cui sopra, amministrare la giustizia in modo “effettivamente” giusto, ovvero stabilire come prima cosa quali sono le forme di violenze da punire e come seconda cosa in che modo punirle? Più precisamente, come evitare che le forme di violenza antropologicamente familiari passino impunite solo perché percepite come “normali” e/o che quelle aliene siano vengano ingiustamente punite perché trasgressioni simboliche e non reali?
Personalmente individuo due, non dico soluzioni, ma possibili punti di partenza per una giustizia che non sia semplice tirannide della (propria) cultura. Innanzi tutto uno stretto individualismo: occorre un grande sforzo per andare al di là delle proprie griglie culturali e distinguere tra trasgressioni simboliche, in cui non ne va di vittime concrete, e trasgressioni con vittime reali. Occorre soprattutto che siano le vittime dell’eventuale trasgressione, e non persone terze, osservatori esterni, a decidere del proprio status di vittima, che il punto di vista della vittima sia preminante e questo, si badi bene, a prescindere dalle condizioni culturali in cui questo punto di vista è dato.
Spia d’allarme sulla presenza di un problema culturale, cioè di una giustizia che non è tale ma tentativo di imporre una norma culturale locale, è l’eventuale conflitto tra quanto afferma la presunta vittima e quanto affermano invece presunti esperti e autorità (magistrati, giornalisti, politici, psicologi, sociologi, attivisti…). Quante volte si sentono frasi come: “È una vittima ma non si rende conto di esserlo”, “Non si sente una vittima perché condizionata dalla tale o tal altro fattore”?
Caso esemplare è quello, su cui spesso torno, del cosiddetto “velo islamico”: personalmente auspico una società in cui ogni donna (e uomo!) possa sentirsi non giudicato per quello che indossa o non indossa. Non giudicato dallo sguardo altrui, ma anche e soprattutto, più formalmente e costrittivamente, dai tribunali. Supporre che le donne che si velano e si sentano libere di velarsi siano automaticamente povere vittime della loro cultura, quindi vittime di violenza da “liberare”, magari con la forza della legge (cioè con una forma di violenza, per quanto legittima alle nostre latitudini), significa aver compreso davvero poco di cosa sia il processo di inculturazione e soprattutto di come la violenza non lo preceda, ma lo segua.