La tortura degli altri

Molti anni fa, quasi cinque per l’esattezza, come ricorderanno i miei numerosissimi lettori, avevo scritto un post titolato La sincerità di Montezuma”, in cui riflettevo su alcuni aspetti dell’incontro tra l’ultimo imperatore Azteco e i conquistadores spagnoli.
Se a volte mi sembra di scrivere al vento (e non perché abbia pochi lettori: come scritto sopra sono numerosissimi), è perché le cose che scrivo mi sembra di non rinvenirle quasi da nessun altra parte: originalità o delirio? Ai numerosissimi lettori l’ardua sentenza.
Comunque sia, mi succede nel febbraio dello scorso anno di trovare un articolo del magazine on-line di lingua inglese Aeon che, pur partendo da una posizione geografica diversa da quella del Messico precolombiano, afferma più o meno le stesse cose che tentavo di dire io in “La sincerità di Montezuma”.
L’articolo si intitola “American torture”. Non ne farò il riassunto, invito a leggerlo. Qui dirò solo che l’autore, William Fitzhugh Brundage, parte dal confronto-scontro culturale, nel XVII secolo, tra i guerrieri Uroni e gli ultimi arrivati sul continente americano, gli Europei.
La prima cosa da notare è che la storia non viene presentata come un racconto morale. Nella coscienza comune la storia nordamericana è passata da una narrazione che vedeva gli “indiani selvaggi” scontrarsi con il “civile europeo” a una, contemporanea, in cui gli indiani sono vittime innocenti del perfido uomo bianco. Se i ruoli si sono praticamente invertiti, non così la prospettiva, quella semplificatoria di uno scontro tra dei Buoni e dei Cattivi. L’articolo di cui sopra non fa sconti a nessuno, fatti ovviamente salvi i rapporti di forza, che col tempo come sappiamo si sono rivelati a sfavore dei nativi americani e a favore dell’invasore europeo.
La seconda cosa è quella più importante, ovvero la percezione della violenza tra le due culture, nel nostro caso di quella violenza che sembra far più orrore alla nostra contemporaneità, ovvero la tortura. La conclusione dell’autore è semplice, ed è anche la mia: la violenza in generale e la tortura in particolare sono difficili da riconoscere come tali quando avvengono nel proprio gruppo di appartenenza, mentre quando avvengono in un gruppo esterno, appaiono sin troppo facilmente come mostruose. O, più precisamente e più sottilmente: ciò che viene chiamata violenza sono spesso pratiche culturali estranee e remote dalle proprie e quindi incomprensibili.
Ciò può apparire sconcertante, perché violenza e tortura sembrano quanto di più per-culturale possa esserci, ovvero di universale. Parliamo dell’uso della forza contro i corpi, dell’inflizione del dolore spesso fine a se stesso, delle carni che si lacerano, delle tecniche per condurre a una morte lenta, e così via.
Eppure, come ci insegnano le riflessioni che a suo tempo avevo condotto su Montezuma, e come mostra ancor più chiaramente l’articolo citato, anche la violenza e anche la tortura possono essere e sono prese nel gioco culturale. E per essere percepite come tali, più che i corpi materiali fatti di carne e sangue, devono distruggere e infrangere l’ordine simbolico su cui si fonda una specifica cultura: la violenza e la tortura, se ritualizzate ed eseguite secondo determinate regole condivise da un determinato gruppo, è come se perdessoro la loro carica distruttiva, come se cessassero di essere tali, o almeno di essere percepite come tali. Se l’ordine culturale viene rispettato anche quelle che dall’esterno appariranno come le peggiori atrocità appariranno come giustificate, giuste e soprattutto normali, diverrano pratiche lecite per fare la giustizia (i supplizî, i linciaggi), per estrarre la verità da un soggetto (la confessione giudiziaria), per trasformarne la sua natura (i riti d’iniziazione, le terapie di “conversione”), e così via.
Termini correnti come “violenza insensata” rivelano involontariamente il gioco in questione: se esiste, a un estremo dello spettro, una violenza insensata, una violenza illeggibile, quella solitamente reputata come la maggiormente insopportabile, vuol dire che ne esiste, all’altro estremo dello spettro, una sensata, dotata di senso, di intelliggibilità. Il contenuto con cui di volta in volta questi due poli vengono riempiti varia a seconda delle epoche e dei luoghi. Così il rogo della strega appare violenza sensata, sopportabile e giusta e il sacerdote azteco che estrae il cuore dalla vittima sacrificale appare violenza insensata, insopportabile, ingiusta. Da una parte la civiltà, dall’altra la barbarie. E ovviamente anche viceversa.

Una prospettiva del genere, volutamente e fortemente relativistica (nel senso culturale del termine), pone ovviamente dei problemi non da poco. Come sempre, quando si parla di relativismo culturale, il problema è la dissoluzione dell’etica.
Come è possibile, una volta accettati i risultati di cui sopra, amministrare la giustizia in modo “effettivamente” giusto, ovvero stabilire come prima cosa quali sono le forme di violenze da punire e come seconda cosa in che modo punirle? Più precisamente, come evitare che le forme di violenza antropologicamente familiari passino impunite solo perché percepite come “normali” e/o che quelle aliene siano vengano ingiustamente punite perché trasgressioni simboliche e non reali?
Personalmente individuo due, non dico soluzioni, ma possibili punti di partenza per una giustizia che non sia semplice tirannide della (propria) cultura. Innanzi tutto uno stretto individualismo: occorre un grande sforzo per andare al di là delle proprie griglie culturali e distinguere tra trasgressioni simboliche, in cui non ne va di vittime concrete, e trasgressioni con vittime reali. Occorre soprattutto che siano le vittime dell’eventuale trasgressione, e non persone terze, osservatori esterni, a decidere del proprio status di vittima, che il punto di vista della vittima sia preminante e questo, si badi bene, a prescindere dalle condizioni culturali in cui questo punto di vista è dato.
Spia d’allarme sulla presenza di un problema culturale, cioè di una giustizia che non è tale ma tentativo di imporre una norma culturale locale, è l’eventuale conflitto tra quanto afferma la presunta vittima e quanto affermano invece presunti esperti e autorità (magistrati, giornalisti, politici, psicologi, sociologi, attivisti…). Quante volte si sentono frasi come: “È una vittima ma non si rende conto di esserlo”, “Non si sente una vittima perché condizionata dalla tale o tal altro fattore”?
Caso esemplare è quello, su cui spesso torno, del cosiddetto “velo islamico”: personalmente auspico una società in cui ogni donna (e uomo!) possa sentirsi non giudicato per quello che indossa o non indossa. Non giudicato dallo sguardo altrui, ma anche e soprattutto, più formalmente e costrittivamente, dai tribunali. Supporre che le donne che si velano e si sentano libere di velarsi siano automaticamente povere vittime della loro cultura, quindi vittime di violenza da “liberare”, magari con la forza della legge (cioè con una forma di violenza, per quanto legittima alle nostre latitudini), significa aver compreso davvero poco di cosa sia il processo di inculturazione e soprattutto di come la violenza non lo preceda, ma lo segua.

Femminismo vs femminismo

Ho aspettato qualche tempo prima di scrivere questo post, qualche tempo per lasciar sedimentare i pensieri, lasciarli coagulare, che ne sortisse qualcosa di concreto e sensato (spero).

I due eventi risalgono all’8 marzo, una settimana fa, possono sembrare slegati, ma in realtà fanno parte dello stesso insieme, almeno per come la vedo io.

Il primo è un referendum che si è tenuto ed è stato approvato in Svizzera, volto a vietare la copertura del volto nei luoghi pubblici. Ovviamente il divieto è generico, ma altrettanto ovviamente l’intento è quello di colpire una determinata (per quanto estremamente sparuta) porzione della popolazione, ovvero le donne musulmane che desiderino coprirsi in maniera integrale.

Sulla questione del velo islamico ho già scritto diverse volte in passato e grosso modo la penso come allora.
In fondo non ci vuole molto ad arrivarci: senza far troppe contorsioni mentali, il divieto di velo è tale e quale l’obbligo di velo, sono entrambe misure coercitive esercitate su una libertà fondamentale, quella che ogni persona ha (dovrebbe avere) di vestirsi come si vuole (o anche di non vestirsi!).
Da questo punto di vista, almeno a partire dalla settimana scorsa, la Svizzera in cui il velo è vietato non è più così differente dalla repubblica islamica dell’Iran, dove il velo è obbligatorio. In entrambi i casi la forza dello Stato viene usata come randello per difendere le usanze di una maggioranza a scapito di una minoranza, quest’ultima dipinta come aliena e pericolosa.
Il voto del referendum svizzero, inoltre, mostra tutti i limiti della democrazia diretta in assenza di robuste garanzie stabilite da una costituzione, che preceda la possiblità di legiferare su diritti fondamentali. E quello di vestirti come a uno (o una, in questo caso) pare è un diritto fondamentale, in quanto non va a infrangere i diritti di nessun altro.
Quello svizzero è quindi un chiaro caso di “dittatura della maggioranza”, in cui tramite procedure apparentemente democratiche si vanno a conculcare i diritti di una minoranza, cosa a maggior ragione triste se si considera quanto sia numericamente ridotta (e quindi debole) la minoranza in questione.

Il secondo evento è uno scontro avvenuto, sempre l’8 marzo scorso, durante un corteo a Parigi per la festa della donna. Evento curioso, perché del tutto interno al movimento. Ovvero, s’è trattato di uno scontro di femministe/i contro femministe/i. Immagino che ognuno dei due gruppi possa facilmente accusare l’altro di non appartenere al “vero femminismo”.
La vicenda è riportata dal celebre (per altri noti motivi) settimanale Charlie Hebdo, articolo tradotto in italiano da un blog che seguo da ormai parecchio tempo (ne approfitto per precisare che non condivido ormai quasi nulla delle idee del blog in questione; lo sfrutto biecamente per riportare qui la traduzione dal francese, lingua che non conosco).
L’articolo di Charlie Hebdo è chiaramente schierato, e in un senso che mi stupisce, per quel poco che conoscevo del settimanale in questione (non era di orientamento libertario?).
I due gruppi che si sono affrontati e scontrati l’8 marzo sono, da una parte delle “femministe radicali”, dall’altra un gruppo “antifascista”. Con le virgolette perché uso i due termini tanto per intenderci: non ho idea se i due gruppi rientrino veramente in queste definizioni (qualunque cosa significhi qui “veramente”: molto spesso non significa nulla).
L’oggetto del contendere tra i due gruppi, da quel che ho capito, è soprattutto la questione trans, questione estremamente dibattuta soprattutto nel Mondo anglosassone più che in quella europeo continentale. Per chi si fosse perso tutta la feroce diatriba sulle persone trans, consiglio di aggiornarsi partendo dall’episodio che ha interessato la scrittrice J.K. Rowling (quella di Harry Potter, per chi ancora non lo sapesse). Anche la questione trans è una lotta quasi completamente intestina al movimento femminista, a dimostrare, caso mai ce ne fosse bisogno (no, c’è bisogno eccome di ribadirlo!) che il femminismo non è un movimento monolitico, tutt’altro.
Ebbene, le “femministe radicali” attaccate al corteo parigino dell’8 marzo, oltre che contrarie alle politiche trans (non so come esprimere meglio il punto in modo conciso e senza rischiare di dir qualcosa di (politicamente) scorretto… ma già questa difficoltà dimostra il livello dello scontro in atto e la tensione che lo accompagna), sono, nell’ordine, “contro la prostituzione, contro la pornografia, contro il velo islamico”. Rispetto a questi temi si definiscono “abolizioniste”, richiamando il termine usato due secoli fa contro la schiavitù.
Ma al di là delle parole, sono donne che hanno ben chiaro quello che le (altre) donne (e le persone in genere) non dovrebbero fare: non dovrebbero poter scambiare servizî sessuali in cambio di denaro; non dovrebbero poter esprimere liberamente la propria sessualità tramite immagini o filmati; non dovrebbero poter abbigliarsi come meglio credono in conformità (o meno) con la propria religione. E immagino che, come rimedio, propongano leggi repressive, ovvero più carcere per tutti (e tutte).
Inutile dire, quindi, a chi dei due gruppi scontratisi l’8 marzo vada istintivamente la mia simpatia, e questo anche se le tattiche aggressive, se non violente, adoperate da chi ha attaccato le “femministe radicali”, possono essere deprecabili. Ma va anche detto, anzi, affermato con decisione che in questo caso più che in altri la critica ai metodi non inficia assolutamente la validità del merito.
C’è poi un’altra riflessione da fare. Ovvero che gli “antifascisti” si trovano quasi obbligati a ricorrere a metodi forti, quei metodi che le “femministe radicali” anti-porno anti-prostituzione anti-ecc. non hanno più bisogno di riesumare. E questo perché? Ma semplicemente perché le seconde hanno ormai, da diversi decennî, dalla loro parte le istituzioni, gli apparati statali, la forza pubblica, che in diversi paesi hanno varato o stanno varando provvedimenti per “abolire” la prostituzione, o contro la pornografia, o contro il velo islamico, e così via.
Tutti provvedimenti votati e approvati da parlamenti spesso a larga se non larghissima maggioranza maschile. E qui sì che ci sarebbe da riflettere: è il patriarcato (patriarcato che secondo il femminismo radicale, questa volta senza virgolette, dovrebbe essere ancora dominante) che, con slancio masochista, contribuisce alla propria stessa disfatta, o forse (dico forse) questi provvedimenti (contro il velo, contro il porno, ecc.) in realtà non mirano tanto alla libertà delle donne quanto a instaurare controlli vecchî e nuovi sulla popolazione tutta, o anche solo sulle sue fasce più deboli e meno rappresentate, più stigmatizzate?
Provvedimenti che, me lo si lasci dire, come tutti i proibizionismi (caso paradigmatico: gli stupefacenti) sono certo destinati a trionfare nella teoria ma a fallire in modo catastrofico nella pratica. A fallire in quello che affermano di volere, cioè sradicare determinate pratiche; a trionfare nel loro intento segreto (ma poi neanche tanto segreto): espandere l’àmbito del controllo istituzionale, alimentare il sistema carcerario, generare nuove forme di criminalità e clandestinità (ed enormi guadagni illeciti) e, nel complesso, ad aumentare il carico generale di sofferenze umane.

Mettere fine alla violenza contro le lavoratrici del sesso significa abolire polizia e prigioni

L’articolo sotto tradotto risale a due giorni fa, e ha un significato se è stato pubblicato proprio il 17 dicembre, come risulterà chiaro leggendolo.
Tratta un tema che seguo da molti anni, più o meno da vicino, ma che io vedo inserito nel più ampio problema del sistema carcerario, su cui purtroppo c’è un consenso sociale quasi comune, ovvero quello per cui il sistema non è abbastanza diffuso, severo, punitivo. Ma di questo ne ho scritto appositamente recensendo giusto qualche giorno un libro che tratta l’argomento.
Ho tradotto questo articolo anche se non lo condivido al 100% (ma quando mai succede una cosa del genere?), ma ritengo giusto fornire informazioni di prima mano su come funzioni attualmente la “giustizia” e lo Stato di polizia nei paesi industrializzati, al di là di quella che invece è la narrazione politico-mediatica dominante.
Ogni piccolo buco nella grande muraglia del sistema punitivo è sempre benvenuto.
Buona lettura a chi vorrà arrivare sino in fondo.
(l’originale inglese si trova qui).

Mettere fine alla violenza contro le lavoratrici del sesso significa abolire polizia e prigioni

Il 17 dicembre, la giornata internazionale per mettere fine alla violenza contro le lavoratrici del sesso, è una giornata per onorare le lavoratrici del sesso scomparse a causa della violenza. Ed è anche un giorno per rafforzare il nostro impegno per una solidarietà con le lavoratrici del sesso. Come dicono gli organizzatori del Sex Workers Outreach Project (SWOP USA) nel sito commemorativo per il 17 dicembre: “Non possiamo mettere fine alla marginalizzazione e criminalizzazione di tutte le lavoratrici del sesso senza combattere la transfobia, il razzismo, lo stigma [contro la prostituzione], la criminalizzazione dell’uso di droghe e la xenofobia.”

Molta della violenza sperimentata da chi lavora nell’industria del sesso è dovuta all’azione dello Stato carcerario; la violenza sessuale e fisica sperimentata per mano di clienti, compagni che abusano e vigilanti di quartiere è un risultato diretto della permissività dello Stato riguardo a tutte le forme di violenza contro chi nella società è stigmatizzato, marginalizzato e criminalizzato. I codici penali, i poliziotti e i tribunali (tutte manifestazioni della supremazia bianca) avallano quotidianamente la violenza di genere e sessuale. Questa logica carceraria è di vasta portata: la nostra società ritiene che punire è una forma di “giustizia”, e per questo rinchiude centinaia di sopravvissute alla violenza. Dagli anni Settanta attiviste femministe contro lo stupro e le carceri, lavorando a fianco di sopravvissute incarcerate, per la maggior parte donne, queer e lavoratrici del sesso, hanno spianato la strada per farci pensare alle sopravvissute incarcerate come a delle prigioniere politiche. Le prigioni sono il deposito definitivo per queste sopravvissute, come ci ha insegnato l’educatrice abolizionista Mariame Kaba, le quali non hanno un sé da difendere. Le prigioni sono il culmine e la prosecuzione della nostra società sessualmente violenta. Considerato ciò, posso ancora sentire Mariame dire che le prigioni sono una forma di violenza sessuale.

La giornata internazionale per mettere fine alla violenza contro le lavoratrici del sesso è stata riconosciuta per la prima volta nel 2003 come una giornata commemorativa per le vittime di Gary Ridgway, il cosiddetto “assassino di Green River”, che tra gli anni Ottanta e Novanta uccise persone dentro e fuori la contea di King, nello stato di Washington. Ridgway si sarebbe vantato della facilità di uccidere lavoratrici del sesso e giovani senzatetto perché non sarebbero mancati a nessuno, affermando di fare il lavoro dei poliziotti al posto loro. Dal 2003 in poi questo giorno ha galvanizzato delle persone in tutto il mondo spingendole a organizzarsi contro la violenza generata dall’odio per le prostitute e per onorare le vittime di questa violenza. Per chi vuole leggere i nomi e ricordare chi è sparito da questo Mondo, SWOP USA ha di nuovo messo insieme quest’anno una lista commemorativa.

Per me i raduni del 17 dicembre a Chicago e New York sono sembrate veglie di protesta, calorosi spazî comunitarî con cibo e cameratismo, momenti di rabbia esternata, urla nella notte fredda, candele illuminate, condivisione di poesia e la possibilità di parlare in nome delle persone che si amano. E hanno incluso anche azioni dirette contro i raid e gli omicidî della polizia. Il 17 dicembre dice che non c’è bisogno di salvatori. È una giornata di richieste. È una giornata piena di urla collettive per un Mondo migliore, un giorno di lutto insieme con chi quel lutto lo può meglio capire.

Alcune persone pensano che si possa far sparire la violenza dal Mondo tramite le leggi. Queste persone non conoscono la polizia e le prigioni come le conoscono le lavoratrici sessuali. Tra questi cattivi soggetti c’è una costellazione di organizzazioni e individui che la comunità consapevole su cos’è il lavoro sessuale definisce l’industria del salvataggio: le ben finanziate organizzazioni del femminismo carcerario che cercano di “salvare” le lavoratrici del sesso dalla presunta violenza intrinseca nel settore, collaborando con la polizia, i tribunali, le prigioni e gestendo programmi di diversione, collaborando con le retate e invocando una maggiore criminalizzazione.

Sono le lavoratrici del sesso le esperte relativamente alle loro esperienze, e le loro organizzazioni hanno sempre detto a chiunque voglia ascoltarle che la maggior parte di violenza di cui fanno esperienza è anche la violenza di cui fanno esperienza quotidianamente le persone nere, le donne, le donne trans, chi usa le droghe, i queers di colore, le persone incarcerate attualmente o in passato, i migranti. Tutti questi gruppi comprendono membri che fanno affidamento sul lavoro sessuale per sopravvivere nel macello capitalista.

I maggiori perpetratori di violenza contro tutti questi gruppi (che a volte si intersecano) sono il sistema carcerario e i loro agenti. Ad esempio, la violenza dei raid della polizia o delle retate fatti per salvare qualcuno non sono mai stati giustificabili e bisogna cessare di mettere sotto bersaglio le comunità vulnerabili come i migranti e i lavoratori recentemente immigrati. Il 17 dicembre è un giorno per chiedere la fine del sistema poliziesco, in tutte le sue forme, in tutto e per tutto. È anche un giorno per ricordare le persone tenute attivamente separate dalle loro comunità dalla violenza di Stato, amici e persone che amano: tenute in prigione, nei centri di detenzione e nelle istituzioni psichiatriche senza il loro consenso.

Una di queste persone, per cui ho occupato uno spazio (virtuale) il 17 dicembre, tramite una visita via video in prigione, è la mia compagna Alisha “LeLe” Walker.

“LeLe” è una poetessa e un’artista visuale, nonché membro del Support Ho(s)e collective, che lavora per costruire una comunità radicale per chi lavora col sesso a Chicago e New York. Alisha è anche una sopravvissuta criminalizzata – una persona punita direttamente o indirettamente a causa di azioni con cui voleva difendersi o proteggersi – attualmente detenuta nel centro correzionale Logan in Illinois. È stata condannata a quindici anni in una prigione di Stato perché si è ribellata contro un cliente violento che esigeva sesso senza protezione e che minacciava lei a una collega con un coltello.

Quella notte Alisha ha salvato la propria vita e quella della collega. Quindi, quando il giudice che ha seguito il caso di Alisha l’ha condannata a quindici anni, le ha detto chiaramente che lei avrebbe dovuto morire quella notte in cui il cliente l’ha attaccata. Ha sottinteso che la vita di lei non contava quanto quello di un uomo bianco con gli agganci giusti. Non è un’iperbole immaginare che il nome di Alisha sarebbe potuto finire sulla lista commemorativa della giornata per mettere fine alla violenza contro le lavoratrici del sesso.

Ma Alisha è sopravvissuta all’aggressione. Il fatto che sia sopravvissuta e la successiva punizione che ha subito sottolinea la violenza razzista e contro le prostitute da parte della polizia, dei tribunali, delle prigioni. Quando Alisha mi ha chiamato l’anno scorso, nel giorno precedente il 17 dicembre, è stata ferma perché io condividessi nella veglia a cui mi sarei unita le sue esperienze della cancellazione violenta perpetuata dalle prigioni.

Mi ha gridato agitata al telefono: “Di’ loro di ricordare tutte le puttana rinchiuse nella prigioni della contea! Ricordatevi di noi!”. E ha voluto che io condividessi che se è importante unirsi per rimembrare e pensare a chi abbiamo perso, è altrettanto importante organizzarsi per combattere e porre fine alla violenza quotidiana che le lavoratrici del sesso affrontano per mano della polizia, dei tribunali, delle pattuglie, dei secondini e dei gestori delle prigioni.

In un’introduzione a una poesia chiamata “Battaglia”, scritta nel 2017 per ricordare il 17 dicembre, Alisha ha scritto queste parole: “C’è bisogno di tutti noi per combattere quest’odio contro di noi, e abbiamo bisogno che tu combatta con noi. Se sostieni i diritti delle lavoratrici del sesso, allora sostieni tutti gli altri diritti: perché questa è la professione più diversa e marginalizzata. Fatti vedere per noi.”

La settimana scorsa Alisha, nelle deplorevoli condizioni del centro correzionale Logan, ha contratto il COVID. La sua collettività e la sua comunità estesa si sta attivamente organizzando per il suo rilascio immediato, con una colletta per quando ritornerà a casa. Combattere la violenza significa anche fornire risorse dirette ai compagni che tornano a casa.

A chiunque si radunerà oggi in forma di cameratismo, per condividere uno spazio più sicuro, in qualunque forma lo faccia, grazie. Organizzare questi raduni è dannatamente difficile, ma è cruciale, oggi più che mai, vivere il lutto collettivamente.

Se siamo impegnati a mettere fine alla violenza contro le lavoratrici del sesso e tutti quelli che col sesso lavorano, siamo obbligati a vedere che questa lotta è intimamente collegata, se non la stessa cosa, con la lotta per abolire il sistema penale, la polizia e le prigioni. Dobbiamo impegnarci a una fiera opposizione contro i confini e la loro sorveglianza. Dobbiamo impegnarci per costruire, sognare e sostenere un Mondo abolizionista. È tempo di unirsi prendendoci cura gli uni degli altri, di far spazio per il nostro lutto collettivo, e di lottare come non mai per vivere in nome di chi ci è stato portato via.

Punire – Una passione contemporanea

Didier Fassin
Punire: Una passione contemporanea
186 pagine
Feltrinelli, 2018

Qualche anno fa mi trovavo a una tavolata a base di pizza.
Tavolata piacevole anche per la compagnia, e con questa compagnia a un certo punto si cominciò un gioco, quello di mettere in ridicolo i luoghi comuni, le frasi vuote, le falsità trite accettate per vere dalle masse, dai media, dalla politica. Ed ecco che io, tra l’una e l’altra, proposi la frase: “In Italia in prigione non ci va più nessuno”. Dopo un attimo di silenzio, come se al tavolo si fosse presentato un ospite incongruo e inatteso, i miei commensali, uno dopo l’altro, ribatterono: “Be’, questo è vero”.
E invece no. Le cose stanno proprio diversamente.
Basterebbe un’occhiata ai numeri, che parlano di un costante aumento della popolazione carceraria negli ultimi trenta-quarant’anni, per smentire il luogo comune. Se nessuno va più in prigione, come mai queste sono sempre più piene?

Lo scopo del libro del francese Fassin non è quello di sbufalare il luogo comune secondo cui la giustizia si starebbe rammollendo, i giudici, a parte pochi coraggiosi, si sarebbero fatti tutti “buonisti” e arrendevoli, la politica idem (ovviamente per interesse), i delinquenti spadroneggerebbero nelle strade e la criminalità sarebbe in costante aumento (“ai miei tempi, invece, si poteva uscire lasciando la porta aperta!”). O meglio, il libro riposa sulla smentita di questo senso comune, che non ha riscontro nella realtà dei fatti.
In poche pagine l’autore smentisce il senso comune riportando i dati nudi e crudi, e soprattutto verificabili: da decennî i reati, specialmente quelli violenti, sono in calo; ma al contempo quel che cresce, a ritmi di raddoppio se non di più, è proprio la popolazione carceraria; e aumentano anche le fattispecie: nuovi reati vengono individuati (o inventati), e la punizione sempre più spesso è la prigione, non altro; infine, le pene tendono a farsi più lunghe e più severe. L’esatto contrario del luogo comune. L’epicentro del fenomeno, partito negli anni Settanta, sono gli Stati Uniti, a oggi il paese con la più grande popolazione carceraria al Mondo, ma l’Europa, pur con variazioni e con minor ferocia, ha seguito l’esempio a partire dagli anni Novanta. L’esatto contrario di ciò che ritiene la maggior parte della popolazione, drogata da un’informazione e una politica che, per anni, hanno cavalcato ogni possibile allarme mediatico, a cui hanno proposto sempre la stessa soluzione: nuove pene, pene più dure, più prigione. La tendenza, va notato, è trasversale: dalla sinistra alla destra, con pochissime eccezioni, l’adesione al paradigma carcerario è totale, l’idea che ogni problema sia un problema di ordine pubblico è universale.

Ma queste sono solo le premesse del libro, che in realtà è un’esplorazione fatta con gli strumenti dell’etnografia, della sociologia, della riflessione giuridica e di quella filosofica, in un ambiente ancora poco percorso, per lo meno al di fuori degli àmbiti specialistici.
L’autore ha frequentato per anni carceri, tribunali e strade per mettere alla prova quelli che sono i presupposti dei dispositivi con cui vengono puniti i comportamenti ritenuti devianti. Le sue domande sono: cosa significa punire? perché si punisce? chi viene punito?
E in questo viaggio, denso ma breve (il libro misura meno di duecento pagine), emerge un fortissimo scollamento sta le alate teorizzazioni giuridiche e filosofiche sulla giustizia e giustezza della punizione e una realtà brutale fatta di abusi, soprusi e arbitrî, a partire dal lavoro sul campo delle forze dell’ordine sino a quelli che avvengono nei tribunali e, in seguito, all’interno delle prigioni.
Il libro si concentra soprattutto sulla Francia e, più marginalmente, sul caso paradigmatico degli Stati Uniti.
Ma anche in Italia abbiamo avuti degli scorci del problema, coi casi Cucchi e Aldrovandi o, più di recente, dei carabinieri di Piacenza. C’è da domandarsi quanto siano punte di un iceberg, quanto l’indignazione che hanno suscitato questi casi sarà presto spenta e sommersa da una più intensa indignazione per i soliti casi di cronaca nera che porteranno a dare ancor più poteri punitivi proprio a forze dell’ordine, ai tribunali e all’apparato carcerario.

Nell’ultimo capitolo, “Chi viene punito?” il libro riannoda i fili che ha dipanato, dimostrando (ma ce n’era davvero ancora bisogno?) il carattere classista, razzista e in genere discriminatorio degli apparati repressivi: sono le fasce marginali della società, le minoranze razziali, gli esclusi dai processi produttivi, i più poveri, i meno istruiti quelli che hanno il maggior rischio di farsi ingoiare dalle ganasce dei tribunali e, in seguito, della prigione, entrando in un circolo vizioso penale da cui risulta sempre più difficile uscire.
È cosa questa, che dovrebbero tenere bene a mente anche quanti, per posizione politica o altro, vorrebbero porsi dalla parte “degli ultimi”, ma poi finiscono per caldeggiare misure punitive nuove o sempre più aspre per mostri reali o inventati dal sistema politico-mediatico.

Il libro è del 2017, la questione è in tumultuoso sviluppo, e per questo non può cogliere le novità che si sono create negli ultimi anni.
Personalmente in esse colgo delle luci e delle ombre.
La buona notizia è che, negli anni più recenti, la guerra alle droghe sta finendo: e questo, curiosamente avviene proprio negli Stati Uniti, che ne sono stati l’epicentro. La guerra alle droghe è ancora uno dei principali motori dell’overdose carceraria che ha coinvolto gran parte dell’intero globo, Italia compresa. Dapprima con una serie di referendum locali, ora (sono notizie di questi giorni) con leggi a livello federale, negli Stati Uniti la droga leggera per eccellenza, la cannabis, sta venendo decriminalizzata rendendone legale la commercializzazione. È ora che la questione delle droghe sia affrontata, quando lo è, come un problema sanitario e non come un problema di ordine pubblico, seguendo il buon esempio dato già in tempi non sospetti da alcuni paesi europei (penso a Paesi Bassi o Portogallo). La fine della guerra alle droghe consentirà di sfoltire in maniera indolore e razionale prigioni sovraffollate, di risanare bilanci statali e di ridurre la violenza dentro le carceri.
La cattiva notizia è un fenomeno, anch’esso curioso, anch’esso con epicentro gli Stati Uniti (molto meno marcato in Europa) che prende il nome di cancel culture (cultura della cancellazione). Ovvero la tendenza a procedere contro chi viene ritenuto (o ritenuta) responsabile di una qualche trasgressione, grave o lieve che sia (in alcuni casi basta anche aver detto una frase “sbagliata”), tramite l’esclusione dalla vita pubblica, il boicottaggio, se non direttamente la persecuzione tramite i copiosi strumenti dati dall’interazione informatica. Ritengo che il fenomeno sia il frutto di decennî di screditamento mediatico e politico proprio dell’operato della giustizia ordinaria, quella dei tribunali, percepiti ormai come lenti, farraginosi, troppo arrendevoli di fronte a colpevoli ritenuti previamente come tali e incapaci di redenzione. Per dirla in altri termini: a cosa serve aspettare anni e anni per una sentenza (che magari sarà di assoluzione) quando si possono comminare entrambe in pochi giorni tramite twitter insieme a orde di proprî simili ferocemente indignati contro i (reali o presunti) colpevoli di turno? Si tratta di una forma di vigilantismo spontaneo in cui le azioni dei singoli (magari persino benintenzionati: chi non vorrebbe punire un cattivo o anche solo levare la propria voce contro un torto?) si assommano a formare un effetto valanga che può portare conseguenze distruttive per chi, di volta in volta, lo subisce (per quanto poco pubblicizzati ci sono stati anche casi di suicidio). La cultura della cancellazione, che trovo possa benissimo essere assimilata a una forma di fanatico squadrismo digitale, attualmente è quella che pone le maggiori sfide ai principî fondanti lo stato di diritto, quali la presunzione di innocenza o il giusto processo. Personalmente, ora come ora, non riesco a immaginare soluzioni possibili, anche se già notare delle differenze tra Stati Uniti ed Europa dimostra come ci sia una componente culturale in gioco. Ma forse qualcuno, un giorno, scriverà un buon libro anche al riguardo.

Del buon uso della religione – Una guida per i non credenti

Alain de Botton
Del buon uso della religione – Una guida per i non credenti
284 pagine
Guanda, 2011

No, cioè, fin dalle prime pagine mi sono chiesto se il libro non voglia essere un’astuta provocazione, fatta per vedere l’effetto che fa (o di conseguenza per vendere), o se magari non sia addirittura un’unica grande trollata.
Davvero l’autore crede in quello che scrive?
La struttura è molto semplice, vengono presi degli aspetti delle religioni che sono (si presume!) assenti nella società contemporanea, e si invitano i “laici” a imitarli per migliorare la qualità della vita di tutti.
Metto “laici” tra virgolette perché l’autore sembra non aver chiara la differenza tra laicità e ateismo ed è (anche) questa mancanza a inficiare gran parte del suo ragionamento. O forse proprio per questo evita appositamente di chiarire la differenza. O forse non gli è chiara essendo francese: in Francia il confine tra laicità e ateismo di Stato non è così netto.
Comunque sia.
Grazie alla confusione di cui sopra, l’autore ha buon gioco a sparare ad alzo zero contro le società laiche/atee ovvero contemporanee (perché anche qui manca la distinzione…), che vengono presentate quasi come delle caricature di se stesse, delle parodie, cui vengono cuciti addosso mali di ogni sorta, se non tutti i mali possibili, e questo senza uno straccio di documentazione. L’autore dà per scontato che il Mondo d’oggi sia un insieme di egoismo, narcisismo, cattiveria, nichilismo, freddezza, superficialità e tanti altri vizî e malanni. E il rimedio sarebbe mutuare i tratti più “sociali” delle religioni, in teoria perduti per colpa della laicità.
Ora, può anche essere che la contemporaneità abbia tanti lati negativi, ma davvero vogliamo fare il confronto con l’Europa prima del XVIII secolo (o con determinati paesi islamici odierni), cioè quando la religione dominava incontrastata? Quando erano considerati la normalità l’uso della tortura nei processi, la persecuzione delle idee (con pena di morte per gli eretici), la sottomissione della donna considerata una proprietà, eccetera eccetera?
Tutte queste “belle” cose sono state superate e consegnate al cestino della Storia proprio grazie all’avvento della laicità. Si badi bene, della laicità, non dell’ateismo.
Ed è anche grazie alla laicità che, oltre a poter pubblicare liberamente il proprio libro, l’autore può immaginare l’implementazione delle sue proposte, a cui chiunque, se lo vuole, può liberamente aderire. L’autore vuole dei luoghi “laici” in cui si possa socializzare e sentirsi parte di una comunità come nelle messe cattoliche? Prego, faccia pure, nessuno glielo impedisce o glielo dovrebbe impedire. Ma non pretenda che le persone debbano aderirvi, perché è proprio qui che sta la differenza tra la laicità e la teocrazia (o l’ateismo di Stato, se vogliamo essere proprio precisi).
Non stupisce quindi che nel secondo capitolo l’autore getti la maschera: dove, in contrasto con un libertarismo che a suo dire oggi sarebbe dominante (anche qui più presuntamente che tale!), si dichiara dalla parte di un nuovo paternalismo statale, non più religioso ma laico: comunque paternalismo. Perché, dice lui, in fondo siamo tutti ancora un po’ bambini desiderosi d’essere guidati per mano.
Ora, il problema di questo paternalismo non è che andrebbe a cozzare, come sostiene l’autore, contro le esigenze di libertà dei singoli (che pure ci sono e andrebbero considerate), bensì contro la pluralità delle morali e dei valori, pluralità presente in ogni società, che lo si voglia o meno. È qui che l’autore dimostra di avere per nulla chiaro il concetto di laicità: laicità non è libertà sfrenata fine a se stessa, ma nasce dal riconoscimento della pluralità morale della società, e della necessità che lo Stato faccia un passo indietro e da Stato etico (quello che tanto piacerebbe all’autore) diventi Stato arbitro della convivenza tra le diverse morali, tra le diverse scale di valori. L’alternativa, che nel libro sembra caldeggiata più o meno esplicitamente, porta dritti alle polizie “per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio” presenti in illuminati paesi come l’Arabia Saudita o simili.
Da ultimo, non si possono tacere le punte di ridicolo raggiunte dal libro, quelle che fanno sospettare per l’astuta trollata. La prima è la proposta dell’istituzione di ristoranti laici dove tenere pasti in comune sulla falsariga della messa cattolica, con tanto di una specie di liturgia laica, frasi ripetute in coro, turni per alzarsi e inginocchiarsi e così via. La seconda è la proposta di riformare le università (da tra l’altro cui verrebbero espunti gli insegnamenti di letteratura e simili perché non abbastanza morali!) scimmiottando le messe più infervorate delle chiese afroamericane (chi ha visto The Blues Brothers sa cosa si intende…), con gli studenti che dovrebbero ripetere in coro e a più riprese le frasi dotte degli insegnanti, possibilmente in ginocchio e cogli occhi colmi di lacrime… Oddio, magari sarebbe anche divertente… Per fortuna, in un regime veramente laico, tali corsi non sarebbero obbligatorî. Ma forse proprio questo all’autore non piacerebbe…

Il male – Storia naturale e sociale della sofferenza

Edoardo Boncinelli
Il male – Storia naturale e sociale della sofferenza
288 pagine
Il Saggiatore, 2019

Una mezza delusione. A partire dal titolo: il libro non racconta affatto la Storia del suo tema, ma fa una ricognizione basata quasi unicamente sulle riflessioni dell’autore.
Dichiaro sùbito il poco che ho apprezzato, ossia l’approccio naturalistico e esplicitiamente a-metafisico dell’autore: il “male” del titolo è quasi sempre inteso come frutto del conflitto tra la materia bruta che tende al disordine e gli organismi viventi che cercano (disperatamente) di mantenere il proprio ordine interno (cioè di mantenersi vivi).
Ma delle poche pagine del libro (poche per il grande tema che vorrebbe affrontare) l’autore riesce a sprecarne tante in digressioni che faticano a incastrarsi in un discorso organico (vedi ad es. tutta la parte sulle emozioni in senso generico nella sezione dedicata al dolore psichico o le elucubrazioni sul concetto di causa nella sezione sul male “naturale”). Soprattutto, nel complesso il libro fatica a scavare sotto la superficie, restando appeso a un semplice descrittivismo a metà strada tra lo scientifico e il fenomenologico e disperdendosi, oltre che nelle già citate digressioni, in un nozionismo da elenco pesante e pedante che non dice nulla di nuovo (vedi ad es. tutta la descrizione delle malattie più diffuse: ce n’era bisogno?).
La seconda parte, quella sui mali non “naturali”, cioè i mali dovuti al vivere dell’uomo in società, è già molto migliore rispetto alla prima. Ed è anche più corta, guarda caso. Qui l’autore illustra come si formano valori e convinzioni nell’individuo, frutto dell’arbitrarietà delle diverse culture (o sistemi religiosi), e adombra persino, in alcune righe, un grande problema (o, secondo me: il problema) della violenza sociale organizzata, ovvero il fatto che sia facile da percepire dall’esterno (ad es. se situata nel passato) ma difficile da percepire quando in atto. È il problema dell’opacità della violenza collettiva, specie se istituzionalmente organizzata, problema che ne gioca un gran ruolo a mio avviso nell’impedirne la soluzione.
Tuttavia, nonostante questi accenni, la trattazione dell’autore continua a sembrare superficiale e scarsamente ficcante. Come già detto, spiega in maniera anche articolata il formarsi di valori e convinzioni, ma non perché questi tendano così spesso a farsi tanto rigidi e a trasformarsi in un’intolleranza dei valori altrui che spesso non vieen nemmeno percepita come tale.
Ovvero, manca una riflessione (che personalmente trovo dovrebbe essere fondamentale) sulla curiosa capacità umana, sulla tendenza umana a selezionare quando percepire o quando restare letteralmente cieca di fronte al dolore altrui e di come questa tendenza venga modellata dalle potenti forze della cultura e del conformismo sociale, che decidono quasi arbitrariamente come e quando gli interruttori dell’empatia vadano attivati o debbano restare spenti; e di come, soprattutto, questa tendenza abbia generato, a mio avviso, le peggiori tragedie nella storia dell’homo sapiens, vuoi per i conflitti spesso sanguinosi sorti tra le diverse configurazioni della percezione dell’empatia, vuoi per le persecuzioni volte contro le minoranze sociali e culturali, persecuzioni rese possibili non da un’ipotetica cattiveria dei persecutori, ma proprio dalla suddetta configurazione di cui sopra.
Si tratta di un “male”, questo, di una produzione storicamente abbondante di sofferenza, che ancora richiede spiegazioni approfondite e definitive. Il libro in esame, ahimé, non fornisce grandi contributi al riguardo.

Quando la ferocia nasconde una prossima sconfitta

Il grafico qui sopra, relativo agli Stati Uniti, risale all’anno scorso (2018), ma poco conta perché a me interessa focalizzarmi su ciò che successo nei decennî passati più che negli anni recenti.
Guardare indietro per spiegare in qualche modo ciò che sta avvenendo ora, negli Stati Uniti e (si spera) nel resto del Mondo, ovvero la progressiva normalizzazione delle droghe leggere, la dissoluzione del tabu sulla cannabis, la fine di un proibizionismo secolare. La criminalizzazione della marijuana sta apparendo via via sempre più incomprensibile e questo a fronte di una guerra alle droghe che, fino all’altro ieri, è stata condotta con strumenti repressivi sempre più spietati, in alcuni paesi (ad es. Centro e Sud America) con sistemi prettamente militari.
Miliardi investiti nel proibizionismo, prigioni riempite a forza con decine di migliaia di colpevoli legati al Mondo delle droghe, migliaia di persone uccise, campagne martellanti per spingere i giovani a dire sempre e solo “no”… e ora nel giro di poco tempo tutto si sfalda e quella che è una semplice pianta non fa più tanta paura.
La guerra alle droghe ha una lunga storia, ma l’inizio del parossismo che ha raggiunto nella nostra epoca può essere collocato lungo gli anni Settanta, alla fine degli anni Settanta, con la svolta conservatrice degli Stati Uniti, quando i loro apparati statali (e a seguire quelli dei loro alleati) scelgono la strada della repressione più dura a fronte dei relativamente liberali anni Sessanta. Si osservi il grafico: è proprio a fine anni Settanta che l’accettabilità della cannabis, fino ad allora in timida crescita, si blocca e ristagna a lungo. Attenzione: ristagna, appunto, rimane relativamente stabile, non cala bruscamente… è come se entrasse in sonno, si celasse sotterraneamente in attesa della fine della bufera, per poi riemergere e schizzare verso l’alto negli anni più recenti. Un cambiamento che, come molti altri, si svolge in tempi storici rapidissimi e che coglie inaspettato chiunque, perché eventuali segnali della svolta erano nascosti.

La riflessione suscitata dalla vicenda può essere generalizzata.
Una repressione feroce, sempre più feroce, può sembrare sia indice di una crescente intolleranza della società verso determinati fenomeni, sospinti verso una progressiva marginalizzazione. Ma a volte questa è solo la superficie, è solo l’apparenza.
Sotterranemente, là dove gli apparati repressivi faticano a giungere, e soprattutto là dove le immagini costruite dai circuiti informativi non riescono ad attingere a quanto serve per rappresentare l’opinione pubblica, può essere che stia fermentando la fine della repressione, che esploderà col tramonto delle vecchie generazioni e l’avvento delle nuove.
La ferocia repressiva non è sintomo di una sua vittoria trionfante, ma di una sconfitta sempre più prossima, di una progressiva perdita di controllo da parte di chi detiene il potere politico e dell’informazione. La ferocia repressiva come sintomo, quindi, di una società lacerata sul tema in questione. Del resto, se ci fosse davvero un consenso generalizzato su determinati temi e fenomeni, non ci sarebbe alcun bisogno di repressione, di proibizionismi e di continue campagne di “sensibilizzazione”.
È così che è sta andando, che è andata per la questione delle droghe. L’edificio del proibizionismo s’è svuotato dall’interno. Mentre dall’esterno appariva solido, massiccio, invincibile, le sue fondamenta erano sempre più fragili, e il crollo è avvenuto, improvviso e quasi imprevedibile.
Personalmente, non ne sentirò la mancanza…

Ancora sull’indisponibilità dei simboli: il problema dello stigma e il politicamente corretto

Riprendo il discorso da un vecchio post, solo per aggiungere un piccolo pensiero.
Parlavo dell’indisponibilità dei simboli, parlavo delle politiche identitarie, dell’idea secondo cui determinate idee, pratiche, tratti di gruppi collettivi dovrebbero essere indisponibili alla pubblica circolazione.

Qualche giorno fa in una sfilata di moda compaiono dei vestiti che potrebbero richiamare le camicie di forza e al contempo una protesta, una modella con scritto sulle mani “la salute mentale non è una moda”.
Sincera azione che va a infrangere il rito del commercio d’alto bordo o, come potrebbero suggerire i più maligni, astuta mossa pubblicitaria in cui tutto è preparato e calcolato?
Non è questo che qui conta, non è questo che qui mi interessa.
Come spesso accade la differenza tra vero e falso poco conta nel caso singolo, purché quest’ultimo sia indice di una tendenza più generale.
Una tendenza dal buon intento, almeno in apparenza.
La tendenza riguarda le categorie sociali marginali, minoritarie, suppostamente o effettivamente stigmatizzate. Che vanno difese. Anche nel campo del simbolico. Come nel caso su citato. Chi potrebbe essere così cattivo dal non voler difendere da ulteriori ingiurie chi già è una vittima della società?
In questo senso l’intento è buono. Si tratterebbe di una forma di rispetto.
Peccato che, a mio avviso, l’effetto ottenuto è esattamente opposto. I meccanismi che questa richiesta di rispetto, totalmente giocata nel campo del simbolico, va ad attivare sono quelli della sacralizzazione. Le minoranze, i loro membri e tutto ciò che li riguarda acquisiscono uno status di sacralità, di intoccabilità. E, come già dicevo nel vecchio post, di indisponibilità. Perché la sacralità crea uno spazio nuovo e speciale la cui distanza, rispetto a quello profano, è enorme, se non insuperabile, invalicabile. E lo spazio del profano è massimamente rappresentato dal Mondo del commercio, dove tutto è massimamente disponibile a chi voglia farne uso (che poi anche il sacro sia storicamente un potentissimo generatore di ricchezza è un altro lungo discorso, che qui non può essere affrontato).
Ma indisponibilità e sacralità significano appunto distanza dal profano, dal normale. Il sacro (che è sempre una categoria immaginaria: non esiste sacro al di fuori di chi lo pone come tale) è ciò che non può essere toccato e manipolato se non con la massima attenzione, tramite pratiche speciali chiamate riti. La purezza del sacro è costantemente minacciata dal pericolo della contaminazione con ciò che sacro non è. Nella sua forma estrema, quando la paura del pericolo in cui il sacro rischia di incorrere si fa massima, l’unica soluzione è espellere totalmente il sacro dal reame del simbolico da cui pure nasce: il sacro va evitato, va taciuto, è il nome di dio che non può essere pronunciato, la sua immagine che non può essere rappresentata.

Ora, identificàti questi processi, chiediamoci se sacralizzare le minoranze stigmatizzate sia utile alle stesse.
Sacralizzare significa rendere impossibile il parlarne, elevare al massimo livello la paura di toccarle verbalmente (simbolicamente, appunto), dare il via a una spirale del silenzio. È la logica profonda che sottostà a quello che viene banalmente chiamato “politicamente corretto”: che parte dall’esigenza che ci siano parole “giuste” (appunto, corrette) per trattare argomenti ritenuti a seconda dei casi sensibili (si costituiscono riti verbali analoghi a quelli religiosi) e arriva al punto in cui tutti, per paura di sbagliare, di cadere in fallo, preferiscono tacere sugli argomenti incriminati (si forma l’interdetto nei confronti dei nomi sacri).
In questo modo, però, non si fa che rafforzare la distanza tra la maggioranza dei “normali” e quella dei “diversi”, non si fa che rafforzare la diversità di questi ultimi, la disuguaglianza e l’incomunicabilità tra i due gruppi. Si ribadisce l’appartenenza dei diversi a uno spazio alieno a quello della quotidianità in cui pure vorrebbero e dovrebbero essere ricompresi. Si aprono abissi là dove invece le distanze dovrebbero essere colmate.
Detto in parole povere: il politicamente corretto rafforza l’esclusione, rafforza lo stigma. Non è, almeno a mio parere, la via migliore per superarlo.

Difendere lo stile di vita europeo?

Difendere un determinato stile di vita?
Può anche essere una bella cosa, se ne può discutere, ma il punto credo sia un altro. Chi dev’essere preposto a questa “difesa”? Dev’essere per forza còmpito dello Stato difendere un determinato stile di vita? Se per stile di vita intendiamo un sistema culturale, cioè gli usi e costumi tramandati tramite le generazioni (e passibili di modifica nel corso del tempo), be’, la risposta secondo me è no. Per lo stesso motivo per cui lo Stato è laico, tale laicità dev’essere garantita anche rispetto alle culture e, appunto, agli stili di vita. Lo Stato non può (secondo me) prendere posizione, ad esempio, riguardo a come si abbiglia la gente, o a quello che mangia o non mangia, alle sostanze che assume, a quando decide di interrompere la propria vita, per lo stesso motivo per cui lo Stato non prende posizione riguardo a chi o come si prega o non prega.
Certo, ci può essere discussione se gli elementi di uno stile di vita siano “superiori” o “inferiori”, quali siano da mantenere, quali da abbandonare, quali da inventare da zero, quali da adottare da altre culture, ma tutto questo può liberamente svolgersi nell’arena del dibattito pubblico, senza che interessi la condotta del potere politico.
Il potere politico, per me, dovrebbe ridurre al minimo possibile il suo posizionamento rispetto alle culture, agli usi e ai costumi, e limitarsi a forgiare quell’insieme di leggi che, idealmente, riescano a garantire la convivenza tra più culture, così come lo stato laico non prende posizione rispetto alle religioni ma agisce come un arbitro neutrale tra le diverse religioni e tra credenti e non credenti.

Ma si possono fare anche altre considerazioni.
Difendere lo “stile di vita europeo”? Ma ne esiste davvero uno? Intendo: uno solo? O l’Europa, con la sua lunga storia e le propaggini che, negli ultimi secoli, ha creato nel bene e nel male su altri continenti, non è piuttosto un contenitore di stili di vita variegati, di aspirazioni, convinzioni, credenze, logiche, forme di pensiero le più disparate, com’è del resto in tutte le culture? Ha senso schiacciare un insieme così vario per spremerne solo alcuni elementi e dichiararli (arbitriaramente) come “europei”? L’Europa come culla della democrazia? Certo, ma anche dell’assolutismo monarchico, del totalitarismo politico nazi-fascista e di quello economico comunista. L’europa come culla dei diritti individuali? Certo, ma anche primo luogo di nascita dei collettivismi più estremi. L’Europa culla di secolarismo e laicità? Certo, ma anche terra di una commistione tra religione, politica e società che, almeno sino a fine ‘600 non aveva nulla da invidiare tra gli odierni regimi teocratici più estremisti.
E pensiamo tutt’oggi alle grandi questioni che ancora riescono a spaccare in due, in modo diverso a seconda dei diversi paesi europei, la gestione del quotidiano dei cittadini: i diritti delle donne, delle minoranze, la questione dell’immigrazione, come e quando gli stranieri si debbano “integrare”, le questioni del fine vita, il rapporto tra tecnologia e ambiente e mondo animale, il modo di intendere la sessualità, e ancora avanti.
Di fronte a questioni di tale portata, estremamente spinose e in continuo sommovimento, l’idea che esiste uno “stile di vita europeo” facilmente caratterizzabile va posta in dubbio. Io ribadisco la mia proposta di una “laicità culturale” oltre che religiosa, che riconosca anche quanto appena detto, ovvero che anche all’interno di un determinato spazio geografico e culturale esista già di per sé, senza l’apporto estero, una pluralità di visioni su come condurre la vita, e che quindi: il multiculturalismo comincia a casa propria.

E un’ultima questione, quella della “difesa”.
Cosa significa che uno “stile di vita” vada difeso? Significa che è sotto attacco. Che è minacciato, che rischia di scomparire. Come una specie in via d’estinzione. Ma è questo il caso dello stile di vita europeo, qualunque cosa esso sia? A me sembra proprio di no, a meno che non si dia retta alle paranoie di chi vede una minaccia a esso nella richiesta da parte dei nuovi europei (i migranti) di poter osservare, anche qui in Europa, i proprî usi e costumi; il discorso sarebbe lungo, ma tale richiesta, da parte di minoranze numericamente poco significative, a me risulta legittima finché non va a violare le leggi (e non i costumi!) dei paesi in cui si vive, finché non va a violare i principî che reggono la vita comune e i diritti individuali, principî che non sono da difendere e osservare perché europei, ma perché universali.
Dichiarare che uno stile di vita vada difeso, immaginarlo sotto attacco è una chiamata alle armi che bordeggia pericolosamente uno stile mentale bellicista, paranoico, poco aderente ai fatti, che tende a leggerli tramite il pericoloso prisma della minaccia, del vittimismo politico, e della sindrome d’accerchiamento… tutte cose da cui, storicamente, non è mai uscito granché di buono…

E allora, lasciate che sia

Quello più convinto era il prof di italiano e latino, che, lui sì, non faceva altro che parlar di politica a lezione. Usava la lezione per parlare di politica. O per fare politica, se vogliamo. Ovviamente di sinistra, quella dura, dichiarò una volta: “per me la proprietà privata è un furto”. Ma al contempo era omofobo. Disse al proposito (me lo ricordo bene (come non dimenticarlo!)): “noi gli anormali non li vogliamo!”. Ma aveva una certa età e si sa (in realtà è cosa che è stata convenientemente dimenticata) che sino agli anni Settanta certa sinistra comunista non vedeva di buon occhio l’omosessualità, giudicata sintomo di decadenza borghese.
Ma stavo dicendo…
Gli altri docenti si muovevano più discretamente, ma non si lasciavano scappare l’occasione, se c’era, di ammannirci la propria opinione su politica e società, anche quando esulava del tutto dall’argomento insegnato.
C’era il prof di storia e filosofia, anch’egli di sinistra, che si impegolò con una mia compagna in una discussione sulla liceità delle droghe leggere. C’era la prof di matematica, molto a destra, che quando seppe che era stato invitato a scuola un palestinese per parlare dei piccoli problemi politici del Medio Oriente, scattò inviperita e furibonda asserendo che: “quelli lì [i.e. gli arabi… o forse intendeva gli islamici? chissà] sono tutti bugiardi, tutti!”
E così via. A ognuno il suo, insomma.

Non so come siano messe le cose al giorno d’oggi dentro la scuola, da quando l’ho terminata con la maturità è passato parecchio tempo, magari qualcosa è cambiato, ma per quanto riguarda il fuori, cioè il giudizio verso i docenti che nelle lezioni parlino anche di politica, ecco, mi sembra che questo giudizio col corso del tempo sia andato indurendosi, e sia da destra che da sinistra si richieda, si esiga che ciò non venga fatto, e il “parlare di politica a lezione” ora sia principalmente percepito come un “approfittarsene delle lezioni per far politica”. La differenza è sottile, ma c’è. Entrambe le fazioni percepiscono come un sopruso ai loro danni il discorso politico a lezione. Va fermato. Va evitato. Va perseguito.
Penso ci siano due motivazioni, una palese e una un po’ più nascosta, dietro a questa esigenza.
La prima, quella palese, è che, come già detto, il docente sfrutterebbe lo spazio scolastico per far qualcosa che con la scuola c’entra poco. Un po’ come se chi insegna italiano o matematica o geografia usasse la sua ora per far giocare a calcio gli alunni. Bellissimo, magari, ma un po’ fuori luogo. In realtà le cose sono un po’ più sottili, e la motivazione è meno valida di quanto appaia. Almeno secondo me.
Questa motivazione ritiene che l’insegnamento di qualsivoglia materia sia alieno alla politica. E invece, intendendo la politica nel suo senso più ampio, e limitandoci ovviamente alle materie umanistiche, chiediamoci: è davvero possibile un insegnamento che sia neutrale rispetto alle stesse? Io credo di no. Già a monte, quando un ministero decide che vengano insegnate determinate cose e non altre, vi è una scelta dotata di precise connotazioni. A valle lo stesso si può dire del modo in cui il docente insegnerà. È possibile insegnare la Storia in maniera neutrale? Io credo di no. E allora: preferisco un docente la cui posizione al riguardo sia ben chiara e palese sin dall’inizio, piuttosto che una presunta neutralità, magari calata dall’alto e dall’alto occhiutamente sorvegliata, con le devianze prontamente punite da un potere centrale.
La seconda motivazione, quella più nascosta, è che l’introduzione della politica a lezione costituirebbe un tentativo di indottrinamento, e questo sarebbe sbagliato. I ragazzi vanno protetti.
Ora, qui bisogna intendersi su cosa costituisce “indottrinamento”.
Per me si ha indottrinamento quando c’è un unico pensiero consentito, ed esiste un potere centrale che non si fa problemi a ricorrere alla forza per reprimere ciò che dal quel pensiero devia. Quindi, nel momento in cui il docente può sentirsi libero di organizzare il proprio insegnamento come crede, anche includendo delle sortite nel terreno minato della politica, e quando ogni docente può farlo secondo il proprio giudizio, be’, questo è l’esatto opposto dell’indottrinamento. Si tratta, al contrario, di un libero gioco di confronto di opinioni, tra studenti e docenti. Certo, può essere che la maggioranza dei docenti poi inclini da una certa parte politica, ma in assenza di imposizione dall’alto di questa inclinazione, non ritengo si possa comunque parlare di indottrinamento. Difatti, come ho raccontato all’inizio, tra i docenti della mia classe c’era una certa varietà di posizioni, dall’estrema sinistra alla destra dura, con le varie sfumature in mezzo. Ce n’era per tutti i gusti, insomma.
In realtà la seconda motivazione che si oppone alla politica a scuola presenta, nascosta dentro se stessa, una paura con delle radici irrazionali, una paura che, nei decennî passati, s’è fatta sempre più forte quando si parla di minori. È la paura della contaminazione.
Si vede il minore come qualcosa di separato dal Mondo profano, dalle sue beghe e dai suoi squallori, dalle sue complicazioni e dalla sua serietà: due realtà che vanno a tutti i costi tenute separate. È la progressiva assimilazione dell’adolescenza all’infanzia, fenomeno storicamente assai recente, misurabile in decennî. Gli adolescenti non più come giovani adulti che possono imparare in maniera via via autonoma col confronto diretto col Mondo, ma come bambini inermi, passivi e fragili che rispetto al Mondo vanno tenuti schermati, protetti, sterilizzati.
Si tratta di un atteggiamento recente (come già detto, misurabile in decennî), e che cozza flagrantemente con la biologia e la neurologia dell’umano. Restando in tema con tutto ciò che ho scritto sopra, in molti casi la prima curiosità della persona nei confronti del funzionamento del Mondo, della società, ovvero della politica nel suo senso più ampio, sboccia proprio con l’avvento dell’adolescenza, ovvero con l’ingresso nello stadio operatorio-formale definito da Piaget. Sono anni di grandi domande che esigono grandi risposte. E come in tutte le cose le risposte non possono che nascere con l’interazione, il confronto.
È un controsenso logico e fattuale, nonché dannoso per i ragazzi stessi, immaginare che lo sviluppo proceda in maniera completamente endogena, senza interazione con l’esterno, e che i contatti con questo possano darsi solo a sviluppo terminato, per tema di interferire in un processo sacro. Meno astrattamente, un parallelo può essere fatto col linguaggio: ogni bambino non impara a parlare isolatamente, per miracolosa generazione spontanea, bensì con la costante interazione con l’adulto, che lo accoglie nella propria lingua (o proprie lingue, per le famiglie bilingui). In mancanza del supporto adulto nell’apprendimento del linguaggio, il bambino rimane mentalmente zoppo, e il recupero in età adulta risulta impossibile. Lo stesso si può dire per lo sviluppo delle idee sul Mondo, sulla società, sulla politica nell’adolescente. Impedire una proficua interazione col Mondo adulto su questi argomenti, in nome di una presunta e, in questo caso, inutile protezione, significa azzopparne lo sviluppo, significa chiedere che venga, se è concessa la metafora, castrato mentalmente.
C’è la famiglia, si dirà, il confronto può avvenire all’interno di essa. Ma le cose non sono così semplici, così facili. La famiglia nucleare ha ormai ridotto da tempo al solo numero dei due genitori gli adulti con cui un ragazzo possa avviare un confronto continuo sulle proprie idee sul Mondo. Non contiamo poi le famiglie (credo non siano poche, anzi…) in cui, per carenze da parte genitoriale, o per chissà quali mille problemi psicologici, il confronto di fatto non esiste da nessun punto di vista.
E allora si consideri che, oggigiorno, gli unici adulti al di fuori della famiglia con cui dei ragazzi in età evolutiva possano avere un confronto proficuo (si spera) e continuo sono proprio i docenti che si incontrano a scuola, giorno dopo giorno. Insomma, rimane proprio solo la scuola. Da questo punto di vista la possibilità di affrontare argomenti di politica, società e simili nelle lezioni non sarebbe solo lecito, ma forse addirittura necessario, anche solo per combattere la monocoltura e l’isolamento che si avrebbe altrimenti se questo compito fosse reso lecito solo in e demandato alla famiglia.

Mi guardo indietro, a posteriori, e mi interrogo se quei docenti che toccavano la politica in classe, chi solo per accenni, quasi titubanti, chi invece, battaglieri, ingaggiando con noi studenti confronti e scontri sulle tematiche più d’attualità, mi guardo indietro e mi interrogo se davvero hanno prodotto danni. Perché alla fine è questa l’unica cosa da chiedersi.
Se si possa parlare di tentativi di “indottrinamento”, di (peggio ancora) “plagio”. E mi dico di no.
Al netto delle ore di lezione perse, quelle discussioni, a volte disordinate, a volte aspre, a volte quasi leggere, sono state utili.
Ognuno di noi alunni le ascoltava, assentiva o dissentiva, partecipava, ne discutavamo terminate le lezioni, e ognuno si faceva la propria idea, giusta o sbagliata che fosse. Perché, nonostante il tempo presente ami sottovalutare sistematicamente le capacità dell’adolescente di opporre resistenza a ciò che non gradisce, nonostante ami vedere i minori come mere bambole di plastilina pronte a farsi pericolosamente plasmare dall’adulto di turno, già tutti avevamo le nostre idee. In formazione certo, ma pur sempre idee e soprattutto nostre. Quegli excursus a lezione sono serviti a metterle in gioco, a testarne la resistenza, forse a cambiarle un po’, magari a rafforzarle. Ma sicuramente, questo posso dirlo, senza alcun danno di sorta.
E allora, lasciate che sia.