Femminismo vs femminismo
marzo 15, 2021 Lascia un commento
Ho aspettato qualche tempo prima di scrivere questo post, qualche tempo per lasciar sedimentare i pensieri, lasciarli coagulare, che ne sortisse qualcosa di concreto e sensato (spero).
I due eventi risalgono all’8 marzo, una settimana fa, possono sembrare slegati, ma in realtà fanno parte dello stesso insieme, almeno per come la vedo io.
Il primo è un referendum che si è tenuto ed è stato approvato in Svizzera, volto a vietare la copertura del volto nei luoghi pubblici. Ovviamente il divieto è generico, ma altrettanto ovviamente l’intento è quello di colpire una determinata (per quanto estremamente sparuta) porzione della popolazione, ovvero le donne musulmane che desiderino coprirsi in maniera integrale.
Sulla questione del velo islamico ho già scritto diverse volte in passato e grosso modo la penso come allora.
In fondo non ci vuole molto ad arrivarci: senza far troppe contorsioni mentali, il divieto di velo è tale e quale l’obbligo di velo, sono entrambe misure coercitive esercitate su una libertà fondamentale, quella che ogni persona ha (dovrebbe avere) di vestirsi come si vuole (o anche di non vestirsi!).
Da questo punto di vista, almeno a partire dalla settimana scorsa, la Svizzera in cui il velo è vietato non è più così differente dalla repubblica islamica dell’Iran, dove il velo è obbligatorio. In entrambi i casi la forza dello Stato viene usata come randello per difendere le usanze di una maggioranza a scapito di una minoranza, quest’ultima dipinta come aliena e pericolosa.
Il voto del referendum svizzero, inoltre, mostra tutti i limiti della democrazia diretta in assenza di robuste garanzie stabilite da una costituzione, che preceda la possiblità di legiferare su diritti fondamentali. E quello di vestirti come a uno (o una, in questo caso) pare è un diritto fondamentale, in quanto non va a infrangere i diritti di nessun altro.
Quello svizzero è quindi un chiaro caso di “dittatura della maggioranza”, in cui tramite procedure apparentemente democratiche si vanno a conculcare i diritti di una minoranza, cosa a maggior ragione triste se si considera quanto sia numericamente ridotta (e quindi debole) la minoranza in questione.
Il secondo evento è uno scontro avvenuto, sempre l’8 marzo scorso, durante un corteo a Parigi per la festa della donna. Evento curioso, perché del tutto interno al movimento. Ovvero, s’è trattato di uno scontro di femministe/i contro femministe/i. Immagino che ognuno dei due gruppi possa facilmente accusare l’altro di non appartenere al “vero femminismo”.
La vicenda è riportata dal celebre (per altri noti motivi) settimanale Charlie Hebdo, articolo tradotto in italiano da un blog che seguo da ormai parecchio tempo (ne approfitto per precisare che non condivido ormai quasi nulla delle idee del blog in questione; lo sfrutto biecamente per riportare qui la traduzione dal francese, lingua che non conosco).
L’articolo di Charlie Hebdo è chiaramente schierato, e in un senso che mi stupisce, per quel poco che conoscevo del settimanale in questione (non era di orientamento libertario?).
I due gruppi che si sono affrontati e scontrati l’8 marzo sono, da una parte delle “femministe radicali”, dall’altra un gruppo “antifascista”. Con le virgolette perché uso i due termini tanto per intenderci: non ho idea se i due gruppi rientrino veramente in queste definizioni (qualunque cosa significhi qui “veramente”: molto spesso non significa nulla).
L’oggetto del contendere tra i due gruppi, da quel che ho capito, è soprattutto la questione trans, questione estremamente dibattuta soprattutto nel Mondo anglosassone più che in quella europeo continentale. Per chi si fosse perso tutta la feroce diatriba sulle persone trans, consiglio di aggiornarsi partendo dall’episodio che ha interessato la scrittrice J.K. Rowling (quella di Harry Potter, per chi ancora non lo sapesse). Anche la questione trans è una lotta quasi completamente intestina al movimento femminista, a dimostrare, caso mai ce ne fosse bisogno (no, c’è bisogno eccome di ribadirlo!) che il femminismo non è un movimento monolitico, tutt’altro.
Ebbene, le “femministe radicali” attaccate al corteo parigino dell’8 marzo, oltre che contrarie alle politiche trans (non so come esprimere meglio il punto in modo conciso e senza rischiare di dir qualcosa di (politicamente) scorretto… ma già questa difficoltà dimostra il livello dello scontro in atto e la tensione che lo accompagna), sono, nell’ordine, “contro la prostituzione, contro la pornografia, contro il velo islamico”. Rispetto a questi temi si definiscono “abolizioniste”, richiamando il termine usato due secoli fa contro la schiavitù.
Ma al di là delle parole, sono donne che hanno ben chiaro quello che le (altre) donne (e le persone in genere) non dovrebbero fare: non dovrebbero poter scambiare servizî sessuali in cambio di denaro; non dovrebbero poter esprimere liberamente la propria sessualità tramite immagini o filmati; non dovrebbero poter abbigliarsi come meglio credono in conformità (o meno) con la propria religione. E immagino che, come rimedio, propongano leggi repressive, ovvero più carcere per tutti (e tutte).
Inutile dire, quindi, a chi dei due gruppi scontratisi l’8 marzo vada istintivamente la mia simpatia, e questo anche se le tattiche aggressive, se non violente, adoperate da chi ha attaccato le “femministe radicali”, possono essere deprecabili. Ma va anche detto, anzi, affermato con decisione che in questo caso più che in altri la critica ai metodi non inficia assolutamente la validità del merito.
C’è poi un’altra riflessione da fare. Ovvero che gli “antifascisti” si trovano quasi obbligati a ricorrere a metodi forti, quei metodi che le “femministe radicali” anti-porno anti-prostituzione anti-ecc. non hanno più bisogno di riesumare. E questo perché? Ma semplicemente perché le seconde hanno ormai, da diversi decennî, dalla loro parte le istituzioni, gli apparati statali, la forza pubblica, che in diversi paesi hanno varato o stanno varando provvedimenti per “abolire” la prostituzione, o contro la pornografia, o contro il velo islamico, e così via.
Tutti provvedimenti votati e approvati da parlamenti spesso a larga se non larghissima maggioranza maschile. E qui sì che ci sarebbe da riflettere: è il patriarcato (patriarcato che secondo il femminismo radicale, questa volta senza virgolette, dovrebbe essere ancora dominante) che, con slancio masochista, contribuisce alla propria stessa disfatta, o forse (dico forse) questi provvedimenti (contro il velo, contro il porno, ecc.) in realtà non mirano tanto alla libertà delle donne quanto a instaurare controlli vecchî e nuovi sulla popolazione tutta, o anche solo sulle sue fasce più deboli e meno rappresentate, più stigmatizzate?
Provvedimenti che, me lo si lasci dire, come tutti i proibizionismi (caso paradigmatico: gli stupefacenti) sono certo destinati a trionfare nella teoria ma a fallire in modo catastrofico nella pratica. A fallire in quello che affermano di volere, cioè sradicare determinate pratiche; a trionfare nel loro intento segreto (ma poi neanche tanto segreto): espandere l’àmbito del controllo istituzionale, alimentare il sistema carcerario, generare nuove forme di criminalità e clandestinità (ed enormi guadagni illeciti) e, nel complesso, ad aumentare il carico generale di sofferenze umane.