Femminismo vs femminismo

Ho aspettato qualche tempo prima di scrivere questo post, qualche tempo per lasciar sedimentare i pensieri, lasciarli coagulare, che ne sortisse qualcosa di concreto e sensato (spero).

I due eventi risalgono all’8 marzo, una settimana fa, possono sembrare slegati, ma in realtà fanno parte dello stesso insieme, almeno per come la vedo io.

Il primo è un referendum che si è tenuto ed è stato approvato in Svizzera, volto a vietare la copertura del volto nei luoghi pubblici. Ovviamente il divieto è generico, ma altrettanto ovviamente l’intento è quello di colpire una determinata (per quanto estremamente sparuta) porzione della popolazione, ovvero le donne musulmane che desiderino coprirsi in maniera integrale.

Sulla questione del velo islamico ho già scritto diverse volte in passato e grosso modo la penso come allora.
In fondo non ci vuole molto ad arrivarci: senza far troppe contorsioni mentali, il divieto di velo è tale e quale l’obbligo di velo, sono entrambe misure coercitive esercitate su una libertà fondamentale, quella che ogni persona ha (dovrebbe avere) di vestirsi come si vuole (o anche di non vestirsi!).
Da questo punto di vista, almeno a partire dalla settimana scorsa, la Svizzera in cui il velo è vietato non è più così differente dalla repubblica islamica dell’Iran, dove il velo è obbligatorio. In entrambi i casi la forza dello Stato viene usata come randello per difendere le usanze di una maggioranza a scapito di una minoranza, quest’ultima dipinta come aliena e pericolosa.
Il voto del referendum svizzero, inoltre, mostra tutti i limiti della democrazia diretta in assenza di robuste garanzie stabilite da una costituzione, che preceda la possiblità di legiferare su diritti fondamentali. E quello di vestirti come a uno (o una, in questo caso) pare è un diritto fondamentale, in quanto non va a infrangere i diritti di nessun altro.
Quello svizzero è quindi un chiaro caso di “dittatura della maggioranza”, in cui tramite procedure apparentemente democratiche si vanno a conculcare i diritti di una minoranza, cosa a maggior ragione triste se si considera quanto sia numericamente ridotta (e quindi debole) la minoranza in questione.

Il secondo evento è uno scontro avvenuto, sempre l’8 marzo scorso, durante un corteo a Parigi per la festa della donna. Evento curioso, perché del tutto interno al movimento. Ovvero, s’è trattato di uno scontro di femministe/i contro femministe/i. Immagino che ognuno dei due gruppi possa facilmente accusare l’altro di non appartenere al “vero femminismo”.
La vicenda è riportata dal celebre (per altri noti motivi) settimanale Charlie Hebdo, articolo tradotto in italiano da un blog che seguo da ormai parecchio tempo (ne approfitto per precisare che non condivido ormai quasi nulla delle idee del blog in questione; lo sfrutto biecamente per riportare qui la traduzione dal francese, lingua che non conosco).
L’articolo di Charlie Hebdo è chiaramente schierato, e in un senso che mi stupisce, per quel poco che conoscevo del settimanale in questione (non era di orientamento libertario?).
I due gruppi che si sono affrontati e scontrati l’8 marzo sono, da una parte delle “femministe radicali”, dall’altra un gruppo “antifascista”. Con le virgolette perché uso i due termini tanto per intenderci: non ho idea se i due gruppi rientrino veramente in queste definizioni (qualunque cosa significhi qui “veramente”: molto spesso non significa nulla).
L’oggetto del contendere tra i due gruppi, da quel che ho capito, è soprattutto la questione trans, questione estremamente dibattuta soprattutto nel Mondo anglosassone più che in quella europeo continentale. Per chi si fosse perso tutta la feroce diatriba sulle persone trans, consiglio di aggiornarsi partendo dall’episodio che ha interessato la scrittrice J.K. Rowling (quella di Harry Potter, per chi ancora non lo sapesse). Anche la questione trans è una lotta quasi completamente intestina al movimento femminista, a dimostrare, caso mai ce ne fosse bisogno (no, c’è bisogno eccome di ribadirlo!) che il femminismo non è un movimento monolitico, tutt’altro.
Ebbene, le “femministe radicali” attaccate al corteo parigino dell’8 marzo, oltre che contrarie alle politiche trans (non so come esprimere meglio il punto in modo conciso e senza rischiare di dir qualcosa di (politicamente) scorretto… ma già questa difficoltà dimostra il livello dello scontro in atto e la tensione che lo accompagna), sono, nell’ordine, “contro la prostituzione, contro la pornografia, contro il velo islamico”. Rispetto a questi temi si definiscono “abolizioniste”, richiamando il termine usato due secoli fa contro la schiavitù.
Ma al di là delle parole, sono donne che hanno ben chiaro quello che le (altre) donne (e le persone in genere) non dovrebbero fare: non dovrebbero poter scambiare servizî sessuali in cambio di denaro; non dovrebbero poter esprimere liberamente la propria sessualità tramite immagini o filmati; non dovrebbero poter abbigliarsi come meglio credono in conformità (o meno) con la propria religione. E immagino che, come rimedio, propongano leggi repressive, ovvero più carcere per tutti (e tutte).
Inutile dire, quindi, a chi dei due gruppi scontratisi l’8 marzo vada istintivamente la mia simpatia, e questo anche se le tattiche aggressive, se non violente, adoperate da chi ha attaccato le “femministe radicali”, possono essere deprecabili. Ma va anche detto, anzi, affermato con decisione che in questo caso più che in altri la critica ai metodi non inficia assolutamente la validità del merito.
C’è poi un’altra riflessione da fare. Ovvero che gli “antifascisti” si trovano quasi obbligati a ricorrere a metodi forti, quei metodi che le “femministe radicali” anti-porno anti-prostituzione anti-ecc. non hanno più bisogno di riesumare. E questo perché? Ma semplicemente perché le seconde hanno ormai, da diversi decennî, dalla loro parte le istituzioni, gli apparati statali, la forza pubblica, che in diversi paesi hanno varato o stanno varando provvedimenti per “abolire” la prostituzione, o contro la pornografia, o contro il velo islamico, e così via.
Tutti provvedimenti votati e approvati da parlamenti spesso a larga se non larghissima maggioranza maschile. E qui sì che ci sarebbe da riflettere: è il patriarcato (patriarcato che secondo il femminismo radicale, questa volta senza virgolette, dovrebbe essere ancora dominante) che, con slancio masochista, contribuisce alla propria stessa disfatta, o forse (dico forse) questi provvedimenti (contro il velo, contro il porno, ecc.) in realtà non mirano tanto alla libertà delle donne quanto a instaurare controlli vecchî e nuovi sulla popolazione tutta, o anche solo sulle sue fasce più deboli e meno rappresentate, più stigmatizzate?
Provvedimenti che, me lo si lasci dire, come tutti i proibizionismi (caso paradigmatico: gli stupefacenti) sono certo destinati a trionfare nella teoria ma a fallire in modo catastrofico nella pratica. A fallire in quello che affermano di volere, cioè sradicare determinate pratiche; a trionfare nel loro intento segreto (ma poi neanche tanto segreto): espandere l’àmbito del controllo istituzionale, alimentare il sistema carcerario, generare nuove forme di criminalità e clandestinità (ed enormi guadagni illeciti) e, nel complesso, ad aumentare il carico generale di sofferenze umane.

Punire – Una passione contemporanea

Didier Fassin
Punire: Una passione contemporanea
186 pagine
Feltrinelli, 2018

Qualche anno fa mi trovavo a una tavolata a base di pizza.
Tavolata piacevole anche per la compagnia, e con questa compagnia a un certo punto si cominciò un gioco, quello di mettere in ridicolo i luoghi comuni, le frasi vuote, le falsità trite accettate per vere dalle masse, dai media, dalla politica. Ed ecco che io, tra l’una e l’altra, proposi la frase: “In Italia in prigione non ci va più nessuno”. Dopo un attimo di silenzio, come se al tavolo si fosse presentato un ospite incongruo e inatteso, i miei commensali, uno dopo l’altro, ribatterono: “Be’, questo è vero”.
E invece no. Le cose stanno proprio diversamente.
Basterebbe un’occhiata ai numeri, che parlano di un costante aumento della popolazione carceraria negli ultimi trenta-quarant’anni, per smentire il luogo comune. Se nessuno va più in prigione, come mai queste sono sempre più piene?

Lo scopo del libro del francese Fassin non è quello di sbufalare il luogo comune secondo cui la giustizia si starebbe rammollendo, i giudici, a parte pochi coraggiosi, si sarebbero fatti tutti “buonisti” e arrendevoli, la politica idem (ovviamente per interesse), i delinquenti spadroneggerebbero nelle strade e la criminalità sarebbe in costante aumento (“ai miei tempi, invece, si poteva uscire lasciando la porta aperta!”). O meglio, il libro riposa sulla smentita di questo senso comune, che non ha riscontro nella realtà dei fatti.
In poche pagine l’autore smentisce il senso comune riportando i dati nudi e crudi, e soprattutto verificabili: da decennî i reati, specialmente quelli violenti, sono in calo; ma al contempo quel che cresce, a ritmi di raddoppio se non di più, è proprio la popolazione carceraria; e aumentano anche le fattispecie: nuovi reati vengono individuati (o inventati), e la punizione sempre più spesso è la prigione, non altro; infine, le pene tendono a farsi più lunghe e più severe. L’esatto contrario del luogo comune. L’epicentro del fenomeno, partito negli anni Settanta, sono gli Stati Uniti, a oggi il paese con la più grande popolazione carceraria al Mondo, ma l’Europa, pur con variazioni e con minor ferocia, ha seguito l’esempio a partire dagli anni Novanta. L’esatto contrario di ciò che ritiene la maggior parte della popolazione, drogata da un’informazione e una politica che, per anni, hanno cavalcato ogni possibile allarme mediatico, a cui hanno proposto sempre la stessa soluzione: nuove pene, pene più dure, più prigione. La tendenza, va notato, è trasversale: dalla sinistra alla destra, con pochissime eccezioni, l’adesione al paradigma carcerario è totale, l’idea che ogni problema sia un problema di ordine pubblico è universale.

Ma queste sono solo le premesse del libro, che in realtà è un’esplorazione fatta con gli strumenti dell’etnografia, della sociologia, della riflessione giuridica e di quella filosofica, in un ambiente ancora poco percorso, per lo meno al di fuori degli àmbiti specialistici.
L’autore ha frequentato per anni carceri, tribunali e strade per mettere alla prova quelli che sono i presupposti dei dispositivi con cui vengono puniti i comportamenti ritenuti devianti. Le sue domande sono: cosa significa punire? perché si punisce? chi viene punito?
E in questo viaggio, denso ma breve (il libro misura meno di duecento pagine), emerge un fortissimo scollamento sta le alate teorizzazioni giuridiche e filosofiche sulla giustizia e giustezza della punizione e una realtà brutale fatta di abusi, soprusi e arbitrî, a partire dal lavoro sul campo delle forze dell’ordine sino a quelli che avvengono nei tribunali e, in seguito, all’interno delle prigioni.
Il libro si concentra soprattutto sulla Francia e, più marginalmente, sul caso paradigmatico degli Stati Uniti.
Ma anche in Italia abbiamo avuti degli scorci del problema, coi casi Cucchi e Aldrovandi o, più di recente, dei carabinieri di Piacenza. C’è da domandarsi quanto siano punte di un iceberg, quanto l’indignazione che hanno suscitato questi casi sarà presto spenta e sommersa da una più intensa indignazione per i soliti casi di cronaca nera che porteranno a dare ancor più poteri punitivi proprio a forze dell’ordine, ai tribunali e all’apparato carcerario.

Nell’ultimo capitolo, “Chi viene punito?” il libro riannoda i fili che ha dipanato, dimostrando (ma ce n’era davvero ancora bisogno?) il carattere classista, razzista e in genere discriminatorio degli apparati repressivi: sono le fasce marginali della società, le minoranze razziali, gli esclusi dai processi produttivi, i più poveri, i meno istruiti quelli che hanno il maggior rischio di farsi ingoiare dalle ganasce dei tribunali e, in seguito, della prigione, entrando in un circolo vizioso penale da cui risulta sempre più difficile uscire.
È cosa questa, che dovrebbero tenere bene a mente anche quanti, per posizione politica o altro, vorrebbero porsi dalla parte “degli ultimi”, ma poi finiscono per caldeggiare misure punitive nuove o sempre più aspre per mostri reali o inventati dal sistema politico-mediatico.

Il libro è del 2017, la questione è in tumultuoso sviluppo, e per questo non può cogliere le novità che si sono create negli ultimi anni.
Personalmente in esse colgo delle luci e delle ombre.
La buona notizia è che, negli anni più recenti, la guerra alle droghe sta finendo: e questo, curiosamente avviene proprio negli Stati Uniti, che ne sono stati l’epicentro. La guerra alle droghe è ancora uno dei principali motori dell’overdose carceraria che ha coinvolto gran parte dell’intero globo, Italia compresa. Dapprima con una serie di referendum locali, ora (sono notizie di questi giorni) con leggi a livello federale, negli Stati Uniti la droga leggera per eccellenza, la cannabis, sta venendo decriminalizzata rendendone legale la commercializzazione. È ora che la questione delle droghe sia affrontata, quando lo è, come un problema sanitario e non come un problema di ordine pubblico, seguendo il buon esempio dato già in tempi non sospetti da alcuni paesi europei (penso a Paesi Bassi o Portogallo). La fine della guerra alle droghe consentirà di sfoltire in maniera indolore e razionale prigioni sovraffollate, di risanare bilanci statali e di ridurre la violenza dentro le carceri.
La cattiva notizia è un fenomeno, anch’esso curioso, anch’esso con epicentro gli Stati Uniti (molto meno marcato in Europa) che prende il nome di cancel culture (cultura della cancellazione). Ovvero la tendenza a procedere contro chi viene ritenuto (o ritenuta) responsabile di una qualche trasgressione, grave o lieve che sia (in alcuni casi basta anche aver detto una frase “sbagliata”), tramite l’esclusione dalla vita pubblica, il boicottaggio, se non direttamente la persecuzione tramite i copiosi strumenti dati dall’interazione informatica. Ritengo che il fenomeno sia il frutto di decennî di screditamento mediatico e politico proprio dell’operato della giustizia ordinaria, quella dei tribunali, percepiti ormai come lenti, farraginosi, troppo arrendevoli di fronte a colpevoli ritenuti previamente come tali e incapaci di redenzione. Per dirla in altri termini: a cosa serve aspettare anni e anni per una sentenza (che magari sarà di assoluzione) quando si possono comminare entrambe in pochi giorni tramite twitter insieme a orde di proprî simili ferocemente indignati contro i (reali o presunti) colpevoli di turno? Si tratta di una forma di vigilantismo spontaneo in cui le azioni dei singoli (magari persino benintenzionati: chi non vorrebbe punire un cattivo o anche solo levare la propria voce contro un torto?) si assommano a formare un effetto valanga che può portare conseguenze distruttive per chi, di volta in volta, lo subisce (per quanto poco pubblicizzati ci sono stati anche casi di suicidio). La cultura della cancellazione, che trovo possa benissimo essere assimilata a una forma di fanatico squadrismo digitale, attualmente è quella che pone le maggiori sfide ai principî fondanti lo stato di diritto, quali la presunzione di innocenza o il giusto processo. Personalmente, ora come ora, non riesco a immaginare soluzioni possibili, anche se già notare delle differenze tra Stati Uniti ed Europa dimostra come ci sia una componente culturale in gioco. Ma forse qualcuno, un giorno, scriverà un buon libro anche al riguardo.

Cose turche (e armene)

Quattro pensieri sulla disputa Turchia-Francia, a proposito della criminalizzazione messa in opera da quest’ultima contro chi negherà il genocidio armeno (o presunto tale, appunto per chi lo nega), secondo una legge in approvazione per il prossimo anno (2012).

1)
La definizione di genocidio è tutt’altro che pacifica, gli stessi storici ne dibattono.
C’è il problema della scelta dei parametri (morti, deportazioni, coinvolgimenti delle istituzioni, stato di guerra, risposte delle vittime, tempi di svolgimento, ecc.) e le soglie degli stessi.
Una volta stabiliti parametri & soglie, resta difficile capire se una situazione specifica vi corrisponda o meno.
Per dire: in quel terribile garbuglio che sono stati i conflitti dell’ex Jugoslavia di circa vent’anni fa, dove si fermava la guerra “normale” e dove cominciava il genocidio, o gli eventuali tentati genocidî? La progressiva e imponente contrazione demografica (e disgregazione culturale) dei cosiddetti nativi americani in seguito all’avanzata della frontiera degli Stati Uniti, calo avvenuto nel corso di secoli, possiamo chiamarlo genocidio? Si può parlare di genocidî per epoche in cui tale concetto era assente? E così via.
Non sono problemi semplici. La possibilità di dare una definizione inoppugnabile di “genocidio” è pari a quella di altri concetti storici quali “rivoluzione”, “progresso”, “invasione”, “terrorismo”, e tanti altri, dove giocano più le interpretazioni che i fatti.
Non è facile ma nemmeno impossibile stabilire quanti individui siano morti e dove in un determinato arco di tempo e a opera di chi. Molto di più se per quei morti si tratti di genocidio, o “semplice” strage, o atto di guerra, o esito involontario di altre (pur discutibili) politiche, e così via.
Ma soprattutto: le difficoltà di stabilire e poi applicare dei parametri per individuare i genocidî sono sin dall’inizio intrecciate con le (volute o meno, poco importa) implicazioni politiche del presente rispetto al modo in cui si scrive la Storia del passato, prossimo o remoto.
La definizione e l’individuazione dei genocidî è di per sé opera molto meno neutrale di quanto si vorrebbe o di come viene proposta.

2)
Si capisce quindi perché è poco sensato operativamente (mancanza di criterî oggettivi) e discutibile moralmente (implicazioni politiche attuali) affidare alle leggi dello Stato e alla giustizia dei tribunali la definizione di cosa sia genocidio, e la punizione per chi neghi i fatti storici su che il potere statale riconosce di volta in volta come tali, su cui appone questo bollino di speciale protezione rispetto al dibattito pubblico.
Lo Stato andrebbe ad affermare che su determinati (e non su altri) sanguinosi fatti del passato la sua è l’ultima parola, rispetto cui la ricerca storica e le opinioni individuali non possano e non debbano avere più nulla da aggiungere, obiettare, rivedere.
E come già detto al punto uno: il problema non sta tanto (o solo) dal lato dei fatti, ma primariamente da quello dell’interpretazione.
Molte delle leggi contro i cosiddetti negazionismi non colpiscono, come si potrebbe credere, solo coloro che negano che determinati fatti siano avvenuti, ma anche determinate interpretazioni degli stessi, cioè quelle che sono definite cme “giustificazioni o minimizzazioni”.
Uno storico potrebbe ammettere che, cent’anni fa, l’allora governo Turco fu responsabile della morte di centinaia di migliaia di armeni, ma al contempo potrebbe negare, sulla base di determinate argomentazioni (stato di guerra, situazione non asimmetrica, mancanza di obiettiva volontà politica sterminazionista), che si tratti di genocidio, nel senso tecnico del termine.
La posizione ufficiale turca sulla questione armena è in effetti questa: sono avvenute deportazioni e morti, ma non tali che si possa parlare di genocidio.
Questa posizione del governo turco è sbagliata nel merito e moralmente ripugnante? Può essere. Io non sono uno storico: so pochissimo di quei particolari fatti, non avrei quindi modo di giudicare. Al massimo potrei farmi un’idea vaga. O fidarmi di determinati storici, o di altri, o tener conto della presenza d’opinioni divergenti. Oppure constatare la presenza di un consenso stabilito, e quindi ancora interrogarmi se sia fondato o meno. Eventualmente sollevare i miei dubbî al proposito. E così via.
Ma appunto: di problemi di questo tipo dovrebbero occuparsene storici e studiosi, rispondendo eventualmente alla propria coscienza o alle obiezioni e i dubbî del pubblico generico, ma non ai governi, agli Stati, ai tribunali.

3)
Immaginiamo se, intorno al 2080, la Finlandia stabilisse per legge che è reato negare il genocidio rwandese del 1994.
Cambierebbe qualcosa per le centinaia di migliaia di persone morte in Africa, un evento che allora risalirà a generazioni addietro?
Tanto per capire quanto sia grottesco che un governo, quello francese, legiferi oggi su fatti avvenuti a migliaia di chilometri e quasi cent’anni di distanza.
Ovviamente le implicazioni, come già detto sono altre: le implicazioni della politica-spettacolo dello Stato forte che “combatte il razzismo” e “sta dalla parte delle vittime”, operazione in questo caso a costo minimo, trattandosi di fatti di quasi un secolo fa e d’un altro continente; le implicazioni dei rapporti internazionali (Turchia-Europa; “Oriente”-“Occidente”), un gioco delicato che si muove anche, com’è sempre avvenuto, dietro al codice cifrato dell’appropriazione statale di pezzi di Storia.
La legge che punisce il genocidio ormai dimenticato è come il monumento posto al confine della Grande Guerra, è come la corona d’alloro lasciata ai “caduti della patria”, è come la mostra celebrativa dei popoli sterminati in quelle che ora sono ex colonie, è come il film educativo proiettato nelle scuole su cui poi scrivere un bel tema in classe pieno di pensiero edificanti e di fratellanza per l’umano genere, quelli che il docente vuol sentirsi dire.
Con la differenza che monumenti, corone d’alloro e mostre varie costano, ma almeno non servono a far scattare manette per reati d’opinione.
E poi c’è la questione dei risarcimenti, ineludibile nella temperia odierna, in cui la vittima è sacra e tutto le è dovuto. Un governo che riconosca la responsabilità dei suoi predecessori in genocidî o simili si rassegna a spalancare la porta a parenti e, in questo, discendenti, pronti a chiedere compensazioni. Cospicue compensazioni, com’è regola del caso.
E qui mi chiedo: ha davvero senso che un individuo riceva tanto denaro o beni da poter permettersi di non lavorare per il resto della propria vita per fatti, per quanto deplorevoli, subiti dal nonno o dal bisnonno, parenti che magari non ha nemmeno mai conosciuto?
Forse converrebbe anche a me lanciarmi sùbito alla ricerca di qualche antenato perseguitato…

4)
La controparte della Francia che vuole vietare il negazionismo del genocidio armeno non è la Turchia che non riconosce tale genocidio.
La controparte è il famoso (o famigerato) Articolo 301 del codice penale turco che punisce gli insulti alla Turchia o a tutto ciò che è turco.
Ne è il complemento, opposto nei contenuti ma uguale nello spirito, nelle origini, negli obiettivi.
Si tratta in entrambi casi di leggi secondo cui il potere pubblico debba e possa avere la prima e ultima parola su questioni di opinioni e interpretazioni, storiche e non.
Si tratta, fondamentalmente, di leggi che stabiliscono reati d’opinione, di leggi che si giovano degli strumenti coercitivi della forza pubblica, strumenti reali, attuali e presenti, usati contro rischî paventati e incerti di violenze future (il razzismo, la disgregazione nazionale), attraverso la chiusura d’autorità di eventuali dibattiti su violenze del passato lontano, se non remoto.
Si tratta di leggi non dissimili, anzi, identiche nello spirito a quelle sul vilipendio alla bandiera, sulla lesa maestà, o su bestemmie e blasfemia laddove le religioni piegano al proprio servizio il potere pubblico.
E non stupisce giungano da paesi, Francia e Turchia, dove particolarmente forte, all’origine, storicamente e ancora oggi, è l’idea moderna che lo Stato sia e debba costituire una religione civile, fatta di altari, simboli, cerimonie, atti di fede pubblici e pubblici sacrifici.

Politici (e politiche) che odiano le donne /2

(qui la prima parte)

Nel precedente post riportavo le parole di un politico francese che, parlando della nuova legge sulla prostituzione, diceva che d’ora in poi il fenomeno sarebbe stato considerato “dal punto di vista della violenza contro le donne”.
E un passo fondamentale, in Svezia, per introdurre la nuova legge, è stato proprio quello di ridefinire la questione in tali termini, in termini di genere.
Il problema della prostituzione non è più la moralità della donna che si prostituisce o il danno che il fenomeno causa “alla famiglia” (argomenti classici dell’opposizione alla prostituzione di stampo religioso/conservatore), bensì la violenza, quella operata dal cliente uomo contro la prostituta donna.

In realtà, in Svezia come altrove, un altro importante fattore del nuovo approccio contro la prostituzione, è stato quello del trafficking, o tratta, o traffico di esseri umani.
Si potrebbe qui fare una lunga divagazione, ma basti segnalare che l’imporsi di un discorso pubblico sulla tratta di esseri umani ha avuto la non piccola utilità per la sinistra politica, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, di impostare una propria posizione sull’immigrazione finalmente digeribile anche dalla gran parte della popolazione che, in tempi di economia traballante e (presunti?) scontri di civiltà, l’immigrazione non la vede affatto di buon occhio, oppure la accoglie con non pochi brontolî.
Se tradizionalmente la destra avversa l’immigrazione, legale o illegale, sulla base del vecchio immaginario degli “stranieri che ci rubano il lavoro e ci stuprano le donne”, ora anche il campo opposto può coltivare un proprio discorso allarmistico in materia, pur se di segno apparentemente inverso: l’immigrazione è un male perché è un commercio di nuovi schiavi.
È qui che si aggancia la questione della prostituzione.
L’immagine tipica della prostituta e quella dell’immigrato/a tendono ora a coincidere, e coincidono sotto il segno della vittima.
Chi si prostituisce, dunque, presenta le seguente caratteristiche:
1) Donna
2) Dapprima straniera vittima dei trafficanti di esseri umani.
3) Ora schiava dei “protettori” e oggetto di violenza dei clienti.

Non serve molta fantasia, in realtà, per immaginare anche altre tipologie.
Oltre alla prostituzione su strada esiste anche quella d’appartamento, quella d’alto bordo, quella che viaggia su internet.
Inoltre, man mano che ci si allontana dal marciapiede e si sale negli attici di lusso dei centri città, o ci si sposta nei villoni di periferia, l’equazione dello sfruttamento a senso unico tende a entrare in crisi fin quasi a rovesciarsi.
Per dire: nel guazzabuglio di corruzione, concussione, cene a sfondo erotico e scambî di favori che ha coinvolto il capo dell’ormai ex governo, chi sfruttava chi? Era il lubrico vecchio satiro che, forte del suo potere economico e politico, elargiva denaro e favori in cambio di sesso giovane? O erano le fanciulle che usavano i loro corpi come arma impropria per aprirsi facili scorciatoie verso la scalata sociale? Da quale parte sta, in questo caso, la vittima? O entrambi i lati sono da considerare colpevoli?
Più in generale: si può davvero dire che la prostituzione sia sempre e invariabilmente un’estorsione di sesso in cambio di denaro? O ci sono casi in cui è valido il contrario, ovvero un’estorsione di denaro in cambio di sesso? Se la differenza c’è, come discriminare?
Si consideri ad esempio quanto segue, casi ignoti per la pubblica opinione, perché fonte di disagio, di vergogna: ovvero i molti disabili, o individui con deformità gravi, che ricorrono proprio alla prostituzione per avere quel conforto fisico che in altro modo difficilmente (o forse mai) potranno ottenere; perché oggettivamente svantaggiati, anche in questo campo, rispetto alle persone “normali”. Ecco, in questi casi: qual è la parte più debole della transazione che scambia sesso con denaro?
È molto, troppo comodo ignorare queste realtà e ridurre l’intero fenomeno del sesso a pagamento a una manifestazione dell’ignobile mentalità predatrice e oppressiva dei maschi machisti e maschilisti.
E poi ci ancora sono altre regioni, molto vaste, ma che di rado ricevono luce dai riflettori del discorso mediatico e pubblico: la prostituzione maschile, omosessuale e non; tutto il mondo della prostituzione transessuale. Mondi che vengono tenuti in ombra: anche qui per pudore, per disagio, per vergogna, per (mancanza di) convenienza politica; mondi che ricevono spazio quasi solo nelle barzellette, nelle battute da caserma.

E c’è anche da chiedersi: ma quanta parta di questa variegata popolazione è sottoposta al giogo degli sfruttatori? Quante e quanti lavorano, per così dire, in proprio? Quanta è locale, e quanta importata (a forza) dall’estero?
Perché alla fine sono i numeri che contano.
Sarebbe facile dire che esiste anche la prostituzione maschile, anche quella autogestita, anche quella in cui è davvero difficile rinvenire tracce di sfruttamento, e così via; ma se la stragrande maggioranza è fatta di sfruttamento dei (delle) più deboli, di effettiva schiavitù, non avrà forse ragione chi chiede l’approccio più repressivo, quello che persegue i clienti?

È di poco tempo fa un’accurata indagine in materia effettuata da due ricercatori americani.
Riguarda il solo Stato di New York, quindi da prendere con cautela. Ma consente di chiedersi se gli stessi o simili risultati non si otterrebbero anche qui, oltre l’Oceano, e in Italia, a volerli cercare.
I due ricercatori, tra l’altro, hanno affrontato un àmbito della prostituzione percepito come particolarmente spinoso, capace di suscitare reazioni viscerali e immediate nel pubblico più sensibile: l’àmbito della prostituzione minorile.
Un àmbito in cui, poi, si dà ancor più per certa l’immagine di cui sopra: quello della ragazzina schiavizzata dal feroce mercato del sesso, vittima impotente di sfruttatori e clienti.
Ebbene, cosa ha scoperto l’indagine in questione?
Alcuni dati:
– Il 45% di questi ragazzi sono maschî. Quasi la metà, dunque.
– Solo il 10% è alle dipendenze di uno sfruttatore. La stragrande maggioranza “lavora in proprio”.
– Il 45% è entrato/a nel giro tramite amici.
– Il 90% sono cittadini/e americani/e. Non stranieri. Non vittime del crudele traffico dai paesi poveri.
Ovviamente questo non significa che la vita di chi, già giovane, si vende per sesso sia rose & fiori, o sia pari a quella dei coetanei di buona famiglia e dei quartieri agiati, tutt’altro. Spesso si tratta di ragazzi e ragazze fuggiti di casa, alla ricerca di un qualunque mezzo per sostentarsi; o per rifornirsi di droghe da cui dipendono.
Sia quel che sia, le conclusioni contraddicono flagrantemente lo stereotipo della ragazzina straniera schiavizzata e imprigionata.

Ma un altro fatto è ben più interessante, e significativo.
Quando i due studiosi hanno cominciato a presentare i loro risultati alle associazioni e alle agenzie dedicate alla lotta alla prostituzione, si sono trovati di fronte a un muro di difficoltà. Se non di ostilità. Di negazionismo.
Dati che confutavano lo steretipo dominante non venivano accettati.
Perché? Sostanzialmente perché non vendono. Sono dati che non vendono presso una realtà di associazioni ed agenzie specializzate a lavorare primariamente sul lato femminile del fenomeno prostituzione, e che trascurano il lato maschile; e quello, ben più scabroso per la pubblica coscienza, della prostituzione transessuale.
La spinta a ridefinire la prostituzione in un’ottica di rigida divisione di genere (l’uomo contro la donna) bloccherebbe automaticamente qualunque dato -e qualunque intervento- che esuli da questa dicotomia prestabilita.
Sono dati quindi che non vendono soprattutto presso la pubblica opinione, e quindi presso i media e la politica, dati scarsamente monetizzabili in termini di industria editoriale e consenso elettorale, e finanziamenti statali.
E poi si parla tanto di sfruttamento dell’immagine femminile

Il quadro consente di chiedersi quanto sia utile e produttivo portare avanti battaglie sociali e imprese politiche sulla base di dati falsati e, nello specifico, se sia davvero sensato ridefinire, come si sta facendo, la prostituzione unicamente nei termini della “violenza contro le donne”, e affrontarla in tal modo.
Si aggiunga poi che molte prostitute, dopo esser state “salvate” da agenzie & operatori specializzati, ritornano sul marciapiede, e ci tornano perché, a conti fatti, vendersi per sesso a quanto pare risulta meno logorante e più remunerativo rispetto ai lavori ritenuti rispettabili dalla società.
E questo dovrebbe ben dire qualcosa su quali mai possano essere le condizioni di lavoro delle alternative alla prostituzione, specie per chi è straniero/a, o comunque ai margini della società.
Se davvero prostituirsi è tanto terribile (e non c’è dubbio che in molti casi lo sia), come devono essere gli eventuali lavori alternativi, per far preferire, tutto sommato, di vendere il proprio corpo a un cliente del sesso e non a una fabbrica o a un campo di pomodori?
Ma di questo poco si parla, e l’opinione pubblica sembra accalorarsi e indignarsi soprattutto per la cosiddetta schiavitù sessuale, in cui vengono frettolosamente ricomprese tutte le forme di commercio sessuale, con vaghe teorie sul denaro che svilisce le relazioni, mentre molta, molta meno attenzione è riservata per le altre eventuali forme di schiavitù, non sessuali, ma forse ben più terribili, e distruttive.
E allora si capisce che il discorso contro la prostituzione che si presenta come nuovo e dalla parte delle vittime, continua invece a essere soprattutto un discorso di tipo morale, del tutto dentro a quella morale che afferma di essersi lasciato alle spalle.
Un discorso che, affermando di “combattere la violenza”, mira piuttosto a un controllo normativo dei corpi degli uomini e delle donne.
Un discorso, tra l’altro, che puntando il proprio obiettivo punitivo verso il “cliente sfruttatore” ha delle sue conseguenze politiche e sociali ben precise, e tutt’altro che positive…

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Politici (e politiche) che odiano le donne /1

Poco più di un anno fa scrivevo come il sistema svedese contro la prostituzione (in cui prostituirsi è lecito, e criminale è il cliente), avrebbe trovato facile via anche all’estero.
Sbagliavo però a immaginare che il primo paese a seguire l’esempio fuori dell’area scandinava sarebbe stato il Regno Unito, che poi avrebbe fatto da esempio per il continente.
Vero è che, se a tutt’oggi in Italia non ho ancora sentito alcuna voce in merito, nel Regno Unito già se ne sta discutendo. Tuttavia la prima mossa concreta di un paese europeo “di peso” la sta facendo la Francia.

Questo mese dunque il parlamento francese ha approvato all’unanimità una risoluzione vincolante perché si arrivi a una legge sulla prostituzione di tipo svedese. La legge marcerà lentamente, ma pare vedrà la luce nel corso dell’anno prossimo, 2012.
Una legge in cui l’alternativa tra punire la prostituzione o legalizzarla viene spazzata via con un rovesciamento radicale di prospettiva, per cui ora la persona che si prostituisce è classificata sempre e automaticamente come vittima mentre il fruitore della prostituzione è lo sfruttatore, il criminale.
“D’ora in poi la prostituzione viene considerata dal punto di vista della violenza contro le donne, una cosa che è diventata inaccettabile per chiunque”, così afferma un parlamentare francese del partito di maggioranza. Chi paga per ottenere sesso sta compiendo una forma di violenza, non dissimilmente da uno stupratore: questa la teoria.
Ora, mentre il parlamento votava unanime tra centro destra sinistra, conservatori cattolici e femministe furibonde in armonioso accordo, fuori dall’aula, in strada, c’era chi d’accordo non era, c’era chi protestava.
Chi protestava erano, guarda un po’, le prostitute. Le dirette interessate, fondamentalmente.
Ora, che delle prostitute protestino, con grande coraggio tra l’altro visto il tema capace di far rabbrividire anche i meno pudibondi, che le prostitute protestino contro una legge che, nelle dichiarazioni, le “proteggerà dalla violenza”, dovrebbe far riflettere.

Dicembre 2011: prostitute francesi protestano contro la legge che dovrebbe salvarle

Le possibilità sono due: o le donne che protestano s’ingannano su se stesse, o la legge ha tutt’altro obiettivo che quello di “salvarle”.
Evidentemente chi sostiene la legge la pensa alla prima maniera: queste donne non sanno ciò che vogliono.
Ad esempio così si può leggere sul sito di uno dei movimenti di pressione che stanno portando alla legge francese:
“La libertà rivendicata da alcune prostitute è del tutto illusoria, poiché condizionata dai protettori, dalla droga, dalle violenze […] Pagare per accedere alla sessualità, al corpo, all’intimità di una persona che non ne ricambia il desiderio non ha niente a che fare con l’idea di contratto, che si fonda invece sulla libertà e l’uguaglianza. Nel caso della prostituzione, la libertà è illusoria e l’uguaglianza beffata.”
Una libertà illusoria. La prostituta che scende in strada per protestare e reclamare il diritto di gestire il proprio corpo come meglio crede, e che chiede soprattutto la possibilità di farlo in piena sicurezza, senza le minacce di protettori e poliziotti, si illude d’essere libera. Non è in grado di esprimersi sulla propria libertà. Donne che si illudono sui propri stessi diritti. Che non hanno la possibilità di esprimersi sugli stessi, o la cui opinione non viene tenuta in conto alcuno.
Ecco, per me è questa, questa è l’oggettificazione tanto tirata in ballo quando si parla di questioni femminili. Oggettificazione è ritenere la donna una minus habens che, in determinati àmbiti, non ha il diritto di gestire se stessa. Che va difesa da se stessa. Sposta sotto tutela. Perché si illude, poverina.
Fatico a vedere la differenza tra il discorso secondo cui la prostituta non ha diritto di esercitare la propria libertà perché “si illude”, perché in realtà, anche se non se ne rende conto, contribuisce a una violenza contro se stessa; e il classico discorso dello stupratore secondo cui la sua vittima “si illude” di aver sofferto mentre in realtà “le è piaciuto”. In entrambi i casi l’opinione della diretta interessata vale meno di nulla, l’opinione viene squalificata con questo vile metodo, cioè dichiarandola illusoria, e vale solo l’opinione di chi detiene il potere, che sia il potere della violenza fisica o il potere della politica.
Piuttosto si dica apertamente: non ci piacciono le prostitute, ci fanno schifo le troie, sono delle donne zozze e immorali, non devono avere la libertà di offrire il proprio corpo per denaro, in questo caso la libertà delle donne non va rispettata, per noi il denaro sporca l’unione dei corpi e questo nostro personale punto di vista lo dovranno accettare tutti, a colpi di multe e manette.
Almeno sarebbe più chiaro e meno ipocrita, invece di nascondersi dietro il paravento della “difesa della libertà e dell’autonomia della donna”.

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“In prigione non ci va più nessuno”

I luoghi comuni: quelle cose che tutti sanno senza che nessuno le sappia motivare. E forse anche questo è un po' un luogo comune.
Ovviamente non è detto che un luogo comune sia necessariamente falso solo in quanto luogo comune. Sappiamo tutti che la Luna non è fatta di formaggio, anche se nessuno ha mai provato ad assaggiarla. E, per quel che ne sappiamo, la Luna potrebbe anche non essere fatta di formaggio.

Un luogo comune attualmente dotato di ampia circolazione e approvazione è che "in Italia in prigione non ci va più nessuno".
Come tutti i luoghi comuni è abbastanza vago da ottenere un ampio consenso, perché permette declinazioni e interpretazioni diverse. Ognuno lo può riempire come meglio preferisce.
Chi tifa per la squadra della "sinistra" si riferisce ai Politici Mafiosi o alla Casta Corrotta, o al Funzionario Che Va Con Le Prostitute; per chi tifa per la squadra della "destra" si sta parlando dell'Immigrato Clandestino, dello Zingaro Ladro o del Mendicante Molesto. Gli Stupratori o gli Ubriachi Al Volante sembrare rientrare a titolo paritario tra i bersagli di entrambe le squadre.
L'importante, in tutti i casi, è che i Delinquenti siano una categoria a parte, quasi un'altra specie, degli alieni dal volto oscuro, diversi da noi, gli Onesti, che dal crimine rampante ci sentiamo offesi e minacciati, sempre pronti a identificarci con le vittime inermi e immacolate.

Al di là delle categorie implicate, mi chiedo però come, chi sostiene che "in Italia in prigione non ci va più nessuno" riuscirebbe a spiegare lo strano fenomeno che vede invece la popolazione carceraria in costante e rapido aumento. Tanto che i problemi di gestione sono cronici, e ben noti.
A differenza di altri problemi sociali, sempre presentati come "dilaganti" senza che mai vengano riportate cifre, in questo caso i numeri ci sono.
Non ci vogliono grandi ricerche in rete per sapere che nel 1998 le prigioni italiane contenevano circa 50.000 detenuti, mentre oggi viaggiano verso i 70.000; o che, facendo un paragone tra il 1990 e i primi anni 2000, si dice che la popolazione carceraria sia praticamente raddoppiata.
Se consideriamo che in questo stesso periodo l'Italia è stata demograficamente ferma, si deduce che, nonostante "in prigione non ci va più nessuno", le prigioni si riempiono lo stesso, e a buon ritmo, e sempre di più.

Il paragone col passato risulta quindi paradossale, perché dire che "in Italia in prigione non ci va più nessuno" implica che, nel passato sempre mitico, quando c'era rispetto per le regole (e gli anziani) e si poteva uscire lasciando la porta aperta (e c'erano ancora le mezze stagioni), le prigioni erano ben piene, perché i ribaldi venivano puniti, mica come oggi!
Eppure i numeri dicono che la tendenza è esattamente all'opposto. Da che parte sta l'illusione?

La seconda implicazione è che "all'estero queste cose non succedono".
All'estero, questa terra indefinita dove, mancando il Gran Diavolo Berlusconi o la Sinistra Buonista (e i fiumi sono di latte e miele), i birbanti finiscono dietro le sbarre, perché colà le cose si fanno seriamente, mica come in Italia!
Eppure basterebbe leggere alcuni libri per avere un quadro diverso.
Ad esempio Parola d'ordine: tolleranza zero – La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale di Loïc Wacquant, in cui si scopre che in Francia, nella seconda metà degli anni Novanta, circolava lo stesso identico luogo comune: "In prigione non ci va più nessuno". Nonostante anche da quelle parti il numero dei detenuti fosse in aumento costante.
Chi poi ha la pazienza di affrontare il ponderoso tomo di David Garland, La cultura del Controllo – Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, vedrà come la storia parta da ben più lontano, e che la diffusa sensazione che lo Stato non punisca abbastanza, che non sia abbastanza cattivo, ha la sua origine tra Stati Uniti e Gran Bretagna già al termine degli anni Settanta, per continuare imperterrita sino a oggi, diffondendosi anche internazionalmente.

Il caso degli Stati Uniti è emblematico.
I dati più recenti, che risalgono al 2008, parlano di più di 2.300.000 prigioneri; sommando anche chi usufruisce della libertà vigilata e altre misure alternative, si arriva a più di 7.000.000 di individui.
Tassi ben più alti della famigerata Cina…

(…continua)